19 aprile 2009

Un padre della Patria


Tempo addietro sul "Corriere della sera" (28/9/2005) Sergio Romano rispose alla lettera di un lettore, su Giuseppe Saragat.Pubblichiamo la sua risposta ritenendo che anche (e forse:...soprattutto) per merito di questo grande leader il riformismo abbia potuto continuare ad essere il vero riferimento dell'impegno di molti.

"Le chiedo perché nessun giornalista, quando elenca i grandi personaggi della prima Repubblica, fa mai il nome di Giuseppe Saragat. Si citano De Gasperi, Nenni, Togliatti, Moro, La Malfa, Fanfani e si omette il nome di un ex presidente della Repubblica che era certamente uomo di grande dirittura morale, di cultura, di ampie visioni internazionali. È una tacita «conventio ad excludendum»? Si può capire lo spirito polemico e magari anche astioso, del Pci al tempo della scissione di Palazzo Barberini, ma dopo decenni non dovrebbe essere difficile riconoscere che quella era la scelta giusta. E allora non è forse il caso di riconoscere qualche merito a Giuseppe Saragat? Nemo Gonano (nemogonano@libero.it)"

Caro Gonano, per la verità mi è accaduto di leggere il nome di Saragat in qualche articolo negli scorsi mesi, ma temo che lei abbia ragione. Non credo tuttavia nella complicità del silenzio e cercherò di dirle quali siano, a mio parere, le ragioni di questa generale smemoratezza. Quando fece il suo debutto al convegno nazionale del Partito socialista unitario nel marzo del 1925, il giovane militante torinese fu applaudito ed ebbe diritto a un caloroso abbraccio di Filippo Turati. Era intelligente, brillante e sapeva parlare con eguale passione dei due obiettivi che il partito avrebbe dovuto proporsi: l'avvento del socialismo e la creazione di uno spirito liberale. Aveva studiato a Torino, ma la sua vera università fu quella dell' esilio, prima nei circoli austro-marxisti di Vienna, poi negli ambienti del socialismo francese. Imparò il tedesco e il francese, lesse i classici del pensiero politico, lavorò con Pietro Nenni alla riunificazione del 1930 fra le due famiglie separate del socialismo italiano, scrisse un libro («L' humanisme marxiste»), ispirato dal pensiero di Léon Blum, presidente del Consiglio all' epoca del Front populaire. Era certamente un socialista democratico, profondamente convinto che il culto massimalista della lotta di classe nuocesse alle fortune del partito e lasciasse ai comunisti, in ultima analisi, la guida del campo antifascista. Ma quando la III Internazionale modificò la sua linea politica e propose ai socialisti europei, per meglio combattere Hitler e Mussolini, l'alleanza dei Fronti popolari, Saragat accettò il patto di unità d'azione che socialisti e comunisti conclusero prima della guerra. Terminato il conflitto, entrò in uno dei primi governi del dopoguerra, tornò a Parigi come ambasciatore e rientrò in Italia nel 1946 per presiedere l'Assemblea costituente. La situazione nazionale e internazionale, nel frattempo, stava cambiando rapidamente. Mentre una parte del socialismo italiano, guidata allora da Nenni, voleva conservare il patto stipulato con il Pci, un sipario di ferro (come disse Churchill in un famoso discorso) stava tagliando in due l'Europa da Danzica a Trieste. Saragat capì che era arrivato il momento di scegliere. Mentre i socialisti, nel gennaio 1947, si riunivano a Roma per il loro congresso, portò la sua corrente a Palazzo Barberini e pronunciò un discorso in cui invocò l' ombra di Turati e dichiarò che «tutto nel socialismo parla di democrazia». I massimalisti e i comunisti lo accusarono di essersi arreso all'imperialismo degli Stati Uniti (i sindacalisti italoamericani lo avevano aiutato, anche finanziariamente) e di essere ormai un «rinnegato». Ma il partito di palazzo Barberini e il suo leader divennero da quel momento un ingrediente necessario della giovane democrazia repubblicana. Saragat non rinunciò tuttavia alla prospettiva di una nuova unificazione tra i fratelli separati. Non appena la rivoluzione ungherese del 1956 incrinò il patto socialcomunista, cominciò a lanciare segnali che Nenni non tardò a raccogliere. Unificazione socialista e «apertura a sinistra» (come si chiamava la politica che portò al primo governo di centrosinistra) divennero da quel momento gli obiettivi complementari di una stessa linea politica. Il suo momento di maggiore successo fu nella seconda metà degli anni Sessanta quando venne eletto presidente della Repubblica e riuscì a festeggiare dal Quirinale l'unificazione socialista del 1966. Quando andai a salutarlo a Castel Porziano prima di partire per Parigi, nel maggio del 1968, mi raccontò alcuni momenti di storia repubblicana del 1947 e mi dette la sensazione di essere molto orgoglioso dei risultati raggiunti. Purtroppo gli anni successivi gli dettero meno soddisfazioni. L'unificazione fallì, l'Italia precipitò nella contestazione permanente, l'immagine del Paese all'estero ne soffrì e lui stesso non poté perseguire con successo il buon lavoro internazionale che aveva fatto con i suoi viaggi negli anni precedenti. Terminato il settennato, ritornò alla guida di un partito che nel frattempo aveva perduto prestigio e rigore. Morì nel 1988 quando il ricordo delle sue qualità e dei suoi successi si era ormai sbiadito. Credo anch'io che sia giunto il momento di restituire a Saragat il posto che gli spetta.

Romano Sergio

Si legga il discorso che pronunciò in occasione del giuramento quale Presidente della Repubblica: qui.