14 aprile 2009

Lezione sul riformismo


Di Giuliano Amato non condividiamo parecchie cose: a cominciare dal suo schierarsi, tuttavia non possiamo non riconoscere che il suo "sottile" ragionamento è in grado di portare sempre importanti contributi.
Il testo che proponiamo è tratto dalla lezione su "Riformismo e riformismi nella lunga tradizione e transizione italiana" da lui tenuta a Milano il 12 ottobre 2001 in un incontro organizzato da Casa della Cultura e Fondazione Italianieuropei.


Oggi c'è ancora spazio per il riformismo, oppure anch'esso è stato travolto dalla fine del XX secolo?

La mia risposta è positiva, perché in questo mondo sono enormi i rischi di esclusione, di divaricazione economica e sociale, di conflitti ingestibili. Non è venuto meno il bisogno, anzi si è esteso su scala planetaria, con una acuita domanda di riequilibrio nei confronti di un'economia che è largamente sfuggita alle regolazioni statuali ed è quindi in condizioni di riprodurre le sue originarie spinte squilibranti e addirittura devastanti.
Il termine riformismo, pur mantenendo un proprio significato originario, è stato fatto proprio nel tempo da tradizioni diverse della cultura e dell'azione politica.
Nel linguaggio corrente della politica sentiamo infatti parlare di riformismo socialista, di riformismo cattolico-popolare, di riformismo liberal-democratico, fino ad arrivare a coloro che parlano di riformismo thatcheriano. In termini generali, quindi, il termine riformismo finisce per includere l'orientamento di chiunque voglia riformare l'esistente, in qualunque senso ed in qualunque direzione.
A ben guardare questa definizione ha un suo senso, e questo sta nel fatto che la distinzione conservatori/progressisti non significa semplicemente che i primi vogliono lasciare immutato lo stato esistente delle cose, mentre solo i secondi lo vogliono cambiare. Può esservi chi vuole modificare gli aspetti esistenti, per rimuovere garanzie e difese sociali, che ritiene di ostacolo alla dinamica del mercato. Esattamente in questa direzione agì il governo della signora Thatcher, che pose in essere una politica riformista per i fini e con il sostegno di chi era politicamente conservatore.
In Italia il genus è inteso in senso più ristretto e tende ad includere quelle culture politiche che si ripropongono una innovazione volta a realizzare una maggiore eguaglianza sociale, favorendo le possibilità di inclusione di coloro che sono esclusi o che possono ricadere fra gli esclusi. In questo senso si assimilano diverse culture che fanno capo al centro-sinistra, ciascuna delle quali ritiene di portare il proprio contributo riformista; la triade che esse formano (riformismo socialista, cattolico-popolare e liberal-democratico, con l'ambientalismo che li arricchisce tutti) possono essere declinate come le culture dell'Ulivo.

Le critiche di Bernstein

Ma questa stessa definizione, ancorché più ristretta della precedente, rimane un'accezione generica perché nei suoi connotati storici originari il riformismo appartiene alla tradizione della cultura politica socialista. Un piccolo esempio basterà a dimostrarlo. Guardando sulle comuni enciclopedie, alla voce riformismo le definizioni suonano tutte più o meno così: "Impostazione politica volta a modificare lo stato esistente delle cose con metodi legali". È chiaro a tutti che altri riformismi, si pensi a quello cattolico-popolare, non si sono mai posti il problema della legalità e quindi dell'uso illegale della forza per raggiungere il loro scopo. È dunque questa definizione con la sua semplicità a farci entrare nella storicità del riformismo socialista, il quale nasce in contrapposizione al progetto di modifica dell'assetto esistente con metodi rivoluzionari e appartiene alla dialettica intema al mondo socialista fra la seconda parte del secolo XIX e l'inizio del XX. La contrapposizione tra riforme e rivoluzione si collega fondamentalmente alle due interpretazioni alle quali fu assoggettato il pensiero di Marx. C'è l'interpretazione secondo la quale i sistemi di produzione capitalistica portano con sé il crescente sfruttamento dei salariati, alimentando il proprio sviluppo attraverso la acquisizione del plusvalore generato dal loro lavoro. La tensione creata da questo processo (insieme alla coscienza di sé e all'organizzazione che lo stesso processo genera fra i salariati) porta alla fine al rovesciamento di questo modo di produzione in nome di un nuovo sistema che sottrae alla proprietà privata i mezzi di produzione. È evidente che questa interpretazione di Marx indica come sbocco la rivoluzione.
Chi l'ha criticata con gli argomenti che ne hanno fatto poi il padre più lucido del riformismo è stato Bernstein, che ne ha messo in discussione gli snodi cruciali. Bernstein nega che lo sviluppo sia affidato al crescente sfruttamento dei salariati. Le modalità organizzative dell'impresa capitalistica e le innovazioni tecnologiche che la interessano, nota Bernstein, consentono una crescita costante della produttività, che da una parte alimenta gli investimenti ulteriori, dall'altra può essere condivisa in termini di migliori salari dai lavoratori, che usino le libertà borghesi per farsi valere. È così contraddetta l'ipotesi secondo la quale soltanto un crescente depauperamento della classe operaia renderebbe possibile il funzionamento della macchina produttiva. È altresì messa in dubbio la scomparsa dei ceti medi, che potranno anzi allargarsi grazie al miglioramento delle condizioni di vita dei salariati. È infine sottolineato che le libertà borghesi offrono spazio all'affermazione dei diritti di cittadinanza dei deboli. La mia è una sintesi molto schematica, ma è sulla base di questi argomenti che Bernstein concluderà affermando che quel che conta non è la finalità ultima, ma è il movimento. "Il movimento è tutto" è una famosa frase di Bernstein che sintetizza le sue conclusioni e che è mal capita da chi pensa che si faccia riferimento al "movimento" così come oggi ne sentiamo parlare a proposito della globalizzazione. Bernstein intendeva dire che il risultato non è affidato al fine ultimo e che è la dinamica della realtà che produce di per sé esiti migliorativi. I primi riformisti della storia accettano il cuore delle argomentazioni di Bernstein, ma in fondo non pensano che il movimento sia tutto, bensì che esso serva - e lo si debba utilizzare - per arrivare comunque al fine, cioè alla trasformazione dell'assetto produttivo sino alla realizzazione della proprietà socialista dei mezzi di produzione. Questa è la linea che emerge fra i riformisti del partito che è il nonno di tutta la sinistra italiana, e cioè il Partito Socialista Italiano nato nel 1892. Quei riformisti sono dei "gradualisti". Per loro essere riformisti vuol dire puntare al superamento finale del sistema capitalistico, ma arrivandoci attraverso il movimento, come dice Bernstein. Negli stessi termini il riformismo prende forza nel più grande partito del socialismo europeo del tempo, l'Spd, la socialdemocrazia tedesca.

Occuparsi del presente

Il riformismo di inizio secolo, dunque, ha un germe finalistico, e non a caso la leadership delI'Spd guarda a Bernstein come ad un eretico, proprio perché egli nega l'importanza del fine ultimo a vantaggio delle dinamiche che di volta in volta consentono progressi sociali. E tuttavia, per quanto finalistico, quello stesso riformismo di inizio secolo impara da Bernstein ad occuparsi del presente, delle condizioni attuali di coloro che si riconoscono nel movimento socialista e quindi ad adoperarsi, attraverso il conflitto sociale e la negoziazione all'interno delle istituzioni, per migliorarle.
Di qui inizia il processo delle conquiste riformiste rivolte al presente. Ci si batte perché possa esservi un conflitto sociale senza che i carabinieri si schierino con i padroni, perché illegale non sia scioperare, ma solo usare la violenza non giustificata da legittima difesa. Ci si batte perché l'orario di lavoro per le donne e i bambini non debba essere di diciotto ore ma di quattordici, e poi di dodici e poi ancora di meno. Ci si batte perché chi lavora possa creare le premesse per ottenere un trattamento pensionistico nella vecchiaia e un reddito che lo assista nei periodi in cui non può lavorare perché si è rotto una gamba. Ci si batte perché il latte, il gas e la luce possano essere forniti da aziende di proprietà pubblica che, in quanto non motivate da profitto, sono disposte anche a portarlo a quei clienti che il gergo degli economisti definisce marginali e per i quali il costo può superare la remunerazione del servizio. Tutte queste sono le conquiste del riformismo socialista, in particolare italiano, nel primo periodo della sua storia. Esse sono il frutto di un'azione che si svolge a più livelli: fornendo libertà e diritti nella lotta sociale, modificando le istituzioni locali, modificando legislazioni nazionali, creando nuove istituzioni.
Quali ne sono gli effetti? Il primo - il più ovvio - è quello di migliorare concretamente le condizioni di vita dei rappresentati. Il secondo è quello di rendere più gestibile e vivibile il conflitto sociale, non più immediatamente schiacciato da una repressione in cui lo stato assiste unilateralmente una sola delle parti. Il terzo è quello di assicurare governabilità e progressiva coesione all'assetto sociale esistente. Questo è un punto di straordinaria importanza: al di là dei traguardi che raggiunge nell'immediato, l'azione del riformismo ha l'effetto più profondo di rimuovere le ragioni della più forte conflittualità e, offrendo soluzioni che sono utili ad entrambe le parti in conflitto, stabilizza l'assetto sociale. Faccio un esempio banale. Richieste come quella di avere l'assicurazione per l'invalidità, un trattamento di vecchiaia, una qualche forma di assicurazione sanitaria maturano nella lotta sociale e sono poste quindi da ciascun segmento operaio alle proprie controparti datoriali. Nessun datore di lavoro avrebbe potuto da solo fornire questi servizi, neppure in forma di quote aggiuntive di salario, perché per ciascuno di loro i costi sarebbero stati proibitivi. Il modo di risolvere questioni del genere era solo quello di collettivizzarle così da ripartirne i rischi. È quello che ha fatto l'azione riformista, in forme diverse da paese a paese, e in tal modo ha ridotto il potenziale di conflitto e contestualmente ha innalzato il livello di civiltà di ciascuno dei paesi in cui questo è accaduto.
L'effetto quindi è stato quello di rendere più governabili e più civili le nostre società. La naturale unilateralità sfruttatrice della macchina capitalistica, così come inizialmente si era messa in moto nelle prime fasi dello sviluppo industriale, è stata bilanciata da un'azione che ha sottoposto il conflitto ad un intervento pubblico regolatore. Attraverso la regolazione e le istituzioni pubbliche il riformismo ha così ottenuto risultati riequilibranti a benefìcio sia dei deboli che dell'insieme.

Il modello europeo

Il primo riformismo dell'inizio del secolo non ha peraltro dirette responsabilità di governo, né assume apertamente una responsabilità nazionale. La esercita tuttavia nelle cose, perché, chiedendo ed ottenendo riforme, previene la violenza, riduce le distanze sociali e produce coesione. Applica così il paradigma secondo il quale nessuna società è governabile se le disuguaglianze superano il limite che le rende insostenibili e porta quindi all'avvitamento violenza/autoritarismo.
Poggeranno su questo fondamento le esperienze riformiste più compiute della prima parte del secolo, quelle cioè dei paesi in cui i partiti socialisti vanno al governo in situazioni di crisi economica a seguito della grande depressione degli anni 1929 e 1950. Nel Regno Unito, in Svezia, in Belgio i partiti socialisti vengono chiamati a governare proprio in ragione di difficoltà che portano la maggioranza dell'elettorato ad affidare le sue speranze alle forze politiche che promettono più protezione e più equilibrio sociale. Assumendo responsabilità di governo i partiti socialisti trovano già nella loro pur breve tradizione il paradigma che fa coincidere l'interesse della parte che rappresentano con l'interesse nazionale. Ed è proprio questa la ragione per la quale sono poi accettati come guida politica dello stato. Ma nell'applicarlo, a differenza dei loro predecessori, lo nutrono e lo arricchiscono con culture anche diverse da quelle dell'origine. Se all'inizio del secolo le impostazioni del riformismo erano i autoprodotte (l'azienda pubblica non motivata dal profitto, che fornisce i servizi essenziali è frutto proprio dell'elaborazione interna alla cultura socialista) a partire dagli anni trenta è Keynes il grande ispiratore dei governi socialisti. Ma il nuovo eclettismo culturale mantiene le vecchie finalità: sostenere il reddito delle famiglie, fare in modo che si creino e non si distruggano i posti di lavoro, evitare l'esclusione. E' qui che entra Keynes, quando insegna che il risparmio come tale non serve a nulla se non diventa investimento, perché l'investimento genera posti di lavoro, che generano reddito, che poi viene speso e mantiene alto il Prodotto interno lordo. È il circuito virtuoso di un'economia che funziona a pieno ritmo e che allarga, anziché ridurre il benessere.
È anche il circuito virtuoso del riformismo, ma questo non cancella le dispute che hanno caratterizzato la storia dei partiti socialisti. Al contrario, quelli che continuano a pensare alla finalizzazione ineludibile, cioè al rovesciamento del sistema capitalistico, vedono nell'impegno riformista il rischio che esso impedisca alla lunga di arrivarci. È l'atteggiamento tipico dei massimalisti, i quali, per decenni interlocutori dialettici dei riformisti, temono che le riforme, riducendo lo spirito combattivo della classe operaia ed assimilandone gusti, modi e aspettative al ceto medio la rendano inutilizzabile per il giorno della chiamata al rovesciamento. E in Italia che cosa è successo? Il vero problema italiano è che la sinistra nel 1921 si è divisa. In quell'anno i riformisti italiani non vivono un momento esaltante della loro storia. Non è vero infatti che la scissione è il frutto della decisione dei comunisti di non stare più con i riformisti. Il conflitto determinante oppone i (futuri) comunisti alla inconcludenza dei vecchi massimalisti che hanno la maggioranza nel partito. Se Turati, e quindi il riformismo, appare come la vittima di quella vicenda è perché i vecchi massimalisti si stringono intorno a lui e alla sua opposizione a una scissione, che egli legge con grande lungimiranza.
La storia darà ragione a Turati, che vede nel comunismo la fonte di regimi caratterizzati dalla mancanza di dialettica interna e di libertà e quindi degli strumenti essenziali alla classe operaia per migliorare le sue stesse condizioni.
La storia darà ragione a Turati, ma quei regimi non entreranno in Italia. L'Italia si trova con un partito socialista che è l'erede naturale del riformismo, ma è privato di larga parte del suo substrato sociale, e con un partito comunista che intreccia il suo destino con quello dell'Intemazionale Comunista e dell'Urss e che tuttavia riesce anche a costruire un solido radicamento nazionale per una pluralità di ragioni: l'acquisizione della rete sociale e organizzativa del vecchio partito; il ruolo che esercita nella lotta contro il fascismo, che lo fa avvicinare da molti giovani, spinti più dall'antifascismo che da adesione al comunismo; il ruolo del sindacato che rimane un luogo nel quale socialisti e comunisti continuano a lavorare insieme.
Una volta superata l'unità d'azione nata nella lotta al fascismo e messa in discussione dalla solidarietà del Pci con la repressione sovietica della rivolta di Budapest del 1956, la divisione fra socialisti e comunisti diviene aspra e irrimediabilmente dannosa. Aspra perché ci si contesta la legittimazione a rappresentare le ragioni della sinistra e si è concorrenti sullo stesso mercato. Irrimediabilmente dannosa, perché i due partiti avevano ciascuno risorse di cui anche l'altro avrebbe avuto bisogno per valorizzare al meglio le proprie. Erano più pronti e ricettivi i socialisti nel cogliere le ragioni del cambiamento sociale alle possibili risposte, erano più capaci i comunisti di trasmettere i loro indirizzi in forma di missione nazionale, condivisa come impegno civile. Ma il conflitto fra le due parti fece sì che avessimo da una parte indirizzi vitali insufficientemente tradotti in missioni nazionali, dall'altro missioni sprovviste di indirizzi vitali.
La divisione non venne mai meno e finì per essere conflitto all'ultimo sangue. Eppure, chi ne legge le vicende non può non accorgersi dei fili comuni che attraversavano entrambi i partiti. Erano i fili del massimalismo, che era ben presente anche nel Psi (di sicuro più nel primo, però, che non nel secondo centro-sinistra). Ed erano i fili del riformismo, che era ben presente nello stesso Pci. Un celebre convegno sul capitalismo italiano organizzato dall'Istituto Gramsci nel 1962 illustra le due tesi che animano in quegli anni la discussione interna ai comunisti. C'è la tesi, allora ingraiana, per cui bisogna incrementare il conflitto perché è solo così che si possono raggiungere risultati significativi, prevenendo riforme che sarebbero di pura razionalizzazione capitalistica. E c'è la tesi di Amendola, il quale ritiene che il capitalismo italiano sia ancora troppo arretrato per tollerare una conflittualità elevata. E pensa che sia meglio rimuoverne le ragioni per non svegliare altrimenti la tigre reazionaria. È un'impostazione trasparentemente vicina a quella dei riformisti dell'inizio del secolo.

L'eredità del massimalismo

Ciò nondimeno sappiamo tutti com'è andata a finire. Oggi non ci sono più né quel partito socialista né quel partito comunista. Ma c'è ancora spazio per il riformismo, oppure è stato travolto anch'esso dalla fine del XX secolo?
Certo molte, moltissime cose sono cambiate e sono cambiate in direzioni che si allontano molto dalle impostazioni che il riformismo aveva seguito nel secolo scorso. Il riformismo |era stato statalista in duplice senso: perché aveva promosso in modo accentuato la gestione pubblica dell'economia, attraverso le imprese pubbliche nazionali e locali, e perché aveva costruito, in ciascuno stato, le sue reti di regolazioni, di riequilibrio e di tutela sociale. Oggi, da un lato c'è molta meno fiducia nelle imprese pubbliche (che dopo decenni di esperienza sono parse in più casi meno provvide per gli utenti di una ben regolata concorrenza) e c'è dall'altro lato l'oggettiva impossibilità di regolare lo sviluppo e la diffusione del benessere entro i confini statali, perché su di essi incidono ormai variabili sovranazionali, se non globali. Il riformismo aveva contato sulle grandi identità collettive cresciute entro i grandi agglomerati della prima fase dell'industrializzazione del fordismo. Oggi quei grandi agglomerati si stanno assottigliando, l'organizzazione delle imprese e la tipologia dei lavori sono diverse, viviamo sempre più in società frammentate. Il mondo è così da una parte smisuratamente più grande, dall'altra ricondotto alle ragioni e ai bisogni di ciascuno di noi, di tante individualità distinte.
E allora, che cosa può dire ancora il riformismo? Può e deve dire ancora tantissimo, perché in questo contesto, non meno e forse ancora di più che in quello in cui nacque, sono enormi i rischi di esclusione, di divaricazione economica e sociale, di conflitti ingestibili; non è venuto meno il bisogno di riformismo, si è all'opposto esteso a scala planetaria, con una acuita domanda di riequilibrio nei confronti di un'economia che è largamente sfuggita alle regolazioni statuali ed è quindi in condizioni di riprodurre le sue originarie spinte squilibranti e addirittura devastanti.
Né confrontarsi con società di individui, con persone che si sentono tali, che hanno o vogliono avere una loro professionalità sul lavoro, che vogliono essere liberi di (e quindi liberi di scegliere) e non solo liberi da (e quindi essere protetti) dovrebbe spaventare i riformisti. È in fondo il segno del futuro che essi hanno sempre cercato di costruire, quello di una società in cui non solo i pochi, ma i più possono sentirsi liberi, non grazie a ricchezze finanziarie che già hanno alle spalle, ma grazie alle conoscenze e alle competenze di cui li si aiuta a dotarsi. E qui inizia il nuovo capitolo del riformismo. Per questo se ne può concludere, con fiducia, la storia fin qui realizzata.