05 aprile 2009

Non potete essere semplici e codardi spettatori

La nostra iniziativa su Basile, ha provocato molti commenti che ci hanno onorato. Pensiamo che sia necessario approfondire la conoscenza di Basile attraverso i suoi scritti. Ne proponiamo uno, a nostro avviso il più significativo: le parole conclusive del capitolo introduttivo ("Dalle origini") di "La Città mia". Sono espressioni che vanno ruminate con calma, al di là dello stile al quale non siamo più abituati, dei motivi "deamicisiani" e delle venature di una cultura forse un po' troppo positivista. Quello che conta sono i valori, è l'indicazione di una "prospettiva alta" di impegno civile vissuta ed unita all'amore per la propria città, che egli non esitò a definire "sua", tanto si sentiva legato ad essa ed ai suoi abitanti.
Dopo aver raccontato la storia della città fino alle ultime vicende della guerra e della Liberazione alle quali aveva partecipato, così illustra la ricostruzione.

"E ritornò al lavoro come prima e come sempre: si era compiuto un dovere che aveva a sè giurato, nella pacatezza del gesto e nella maestosità della vittoria, conscia della propria forza e del suo diritto di popolo libero, avvinto dal fascino del suo stemma municipale: Deprimit elatos, levat Alexandria stratos: Alessandria deprime i potenti e innalza gli umili.
Così, ragazzi miei, (n.d.r.: "La Città mia" è scritto per gli alunni delle elementari), avrete capito quanto è lenta e faticosa la via della libertà e del progresso umano. Dallo schiavo della gleba, che si poteva vendere come il bue o un sacco di patate, al senso libero dell'uomo e del suo onesto procedere di oggi; dalla prima prepotenza cieca del più forte e del più ricco, fino alla quasi raggiunta emancipazione del tempo moderno, vi sono stati i sentieri di spine, i grovigli creati dai tristi, uniti alla malvagità dei simili loro. E tutto questo mentre vi fu Chi disse: "Amatevi come fratelli; e non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi!" (n.d.r., cfr Vangelo: Mt 7,12; Lc 6,31; Gv 13,34 e S. Paolo: Rom 13,9 e Gal 5,14)
Eppure, vi è ancora oggi chi inzuppa la terra comune, col sangue dell'uomo, senza rabbrividire e senza rimorso.
Ragazzi, amatela questa vostra città che dallo strame di paglia è assurta ad una luminosità più bella e più viva. Amatela per le culle dei fratellini vostri e per le fredde tombe di chi sorrise un tempo nella vostra casa.
Amatele intensamente queste vie sonanti di nomi di gloria e di ricordi di un passato fortunoso.
Però non vi chiudete in questo egoismo buono che a voi, piccoli, sembra oggi d'oro.
Sì: amate chi vi vuol bene, amate la città dove foste istruiti ed educati. Ma amate anche la casa degli altri, anche se in essa si parla una lingua che a voi è strana e sconosciuta; amatela anche se in essa vi sono i più fortunati di voi; amatela anche se in essa vi sono genti di pelle di colore diverso, con usi, costumi, pensamenti, gesti diversi dai vostri.
Imparàtelo, ragazzi mei: questo comprendersi a vicenda; questo guardarsi amichevolmente negli occhi; questo sentir battere sereno un cuore vicino al vostro cuore che non deve avere rancori, nè odii, nè vendette da fare, nè rappresaglie da compiere; amate tutto questo, perchè fa parte della civiltà umana, della gloria dell'uomo e del mondo intero; perchè dobbiamo creare una fioritura nuova di luce e di colori; perchè dobbiamo profondamente pensare che, vicini o lontanissimi, vi sono altri ragazzi che giocano come voi, altre mamme che cantano anch'esse le ninna-nanne, altri padri nell'affanno e nelle morse di un duro lavoro, altri nonni che agonizzano, dopo aver dato agli altri il meglio della vita loro.
Splenda, oggi una ricchezza nuova per tuttti!
Ragazzi miei, voi non potete essere semplici e codardi spettatori ed estraniarvi, corrucciati ed inoperosi, da questa lotta, la quale costituisce appunto il progresso di una umanità rifatta."