06 aprile 2009

De Amicis e quel centenario VOLUTAMENTE dimenticato


A proposito del "centenario dimenticato" di De Amicis, Silvestro Gambi ha pubblicato sull'Avanti!, edizione on line, del 9 febbraio scorso un significativo commento.
Dopo aver rilevato la dimenticanza, il giornalista si sofferma sul carattere gravemente sospetto di questa smemorataggine. E continua osservando che per la "sua caratteristica sensibilità umana e sociale, che non mancava di tradurre nei propri scritti, De Amicis ebbe già all’epoca qualche tenera frecciata da Giosuè Carducci “Edmondo da i languori/il capitan cortese” e alcune distratte ma acuminate censure da Antonio Gramsci. Tuttavia per tre quarti di secolo la sua opera più nota, “Cuore”, rimase una fortezza letteraria troppo amata dagli innumerevoli lettori per poter essere attaccata con qualche possibilità di successo. Bisogna dunque attendere gli anni Sessanta perché le armate più agguerrite della cultura del tempo finalmente riescano a radunare forze adeguate per muovere all’assalto di “Cuore” e del suo autore. Da Arbasino a Faeti a Umberto Eco. Ed è quest’ultimo in particolare che officerà quello che, all’epoca, era una specie di rito religioso: “la dissacrazione”. In “Diario Minimo”, in un primo tempo rubrica sulla rivista letteraria “il Verri”, poi volume autonomo per i tipi di Mondadori, pubblicherà un memorabile “Elogio di Franti”. Il cattivissimo Franti viene così elevato a eroe positivo, l’unico di tutto il romanzo che, per il resto, trasuda di stucchevole bontà, di noioso senso del dovere, di solidarietà umana, ma non di classe, di rispetto delle istituzioni, all’epoca - orrore! - monarchiche. Un personaggio positivo dunque, l’elogiato Franti, perché fuori dal coro, non omologato alla cultura dominante, anticonformista: Franti ride di fronte alle scene toccanti che commuovono i suoi compagni, ride ai funerali del re e con il riso manifesta la sua opposizione ai valori dei suoi compagni, la sua estraneità a quel modello di cultura. In questo senso, secondo Eco, Franti è, a dispetto del suo autore De Amicis, una specie di prototipo del rivoluzionario che tanto piacerà negli incombenti anni Settanta del secolo scorso. Chi ha memoria dei quegli anni ricorderà come persino il genere spaghetti western, il western all’italiana, era tessuto su una trama di rivolta di classe, tra l’altro molto sanguinaria più ancora che sanguinosa. Pareva quasi che, dovendo culturalmente preparare i giovani dell’ormai prossimo Movimento Studentesco a evolversi in Potere Operaio, in Lotta Continua, che infine trasmutarono nelle degenerazioni della lotta armata, si facesse a gara nel proporre nuovi e più adeguati modelli. Il resto, come ben sappiamo, fu scritto col sangue. A giudicare dall’attualità della grottesca vicenda dell’estradizione di Cesare Battisti, si può dire che tale dibattito sia ancora vivo e vegeto, certamente in Francia fra gli intellettuali, ma in fondo anche qui da noi, per tacer del Brasile. Comunque Franti, a ben vedere, come modello di malvagità non è proprio il massimo, tuttavia è sufficiente, appena sufficiente, per cominciare a invertire una tendenza, ma è quanto basta. Un po’ come “Lettera a una professoressa”, quasi incontestabile nel sentimento e pur tuttavia caposaldo di quella demolizione del valore del merito individuale che ha massacrato la nostra scuola, quasi tutta, e un bel pezzo di società. E guai a dirlo ancora oggi! Quanto a “Cuore” il libro verrà espulso dalla scuola e messo all’indice dagli intellettuali militanti per lasciare il passo a nuovi eroi e nuovi modelli: la suggestiva analisi di Marx, la determinazione ostinata di Lenin, l’esotica semplicità di Mao Tse Tung, il torbido fascino di Stalin e l’indimenticabile sfortunato Che Guevara, romantico fucilatore di borghesi più o meno compromessi con il regime del dittatore Fulgenzio Batista. Nessun dramma: oggi che queste idee sono ormai, come si dice, vintage, interessano solo pochi ostinati collezionisti, e che il mitico sentiero di Ho Chi Min è un’autostrada a otto corsie, si può forse, con circospezione magari, cogliendo l’occasione o il pretesto del centenario dimenticato, riprendere in mano “Cuore” e approfittare per dare uno sguardo più approfondito o anche solo meno pregiudiziale anche al resto dell’opera di De Amicis.Se un centenario vale, almeno in teoria, di più di tanti anniversari intermedi, ecco dunque che proprio per questo il centesimo della morte può, se lo si voglia, chi scrive lo ritiene utile e addirittura necessario, offrire un’occasione se non per rivedere alcuni giudizi viziati, anche perché geneticamente sbocciati in epoca sospetta, almeno per ricollocare la vicenda deamicisiana, depurata da improprie e pretestuose polemiche, peraltro ormai fin troppo datate, nel suo senso più corretto dal punto di vista sociale, storico e, infine, anche da quello più strettamente letterario. E ciò facendo ci si accorgerà che si può onorevolmente e legittimamente ricollocare anche Edmondo De Amicis nello scaffale giusto della letteratura italiana dell’ottocento, dove non sfigura affatto. Perché, che lo si voglia o no, il “Libro Cuore”, come veniva chiamato, è stato letto da intere generazioni di ragazzi italiani dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Sessanta e ha inevitabilmente lasciato una traccia in moltissimi di loro, che è come dire in tutti noi. E se oggi si ha il coraggio di riprenderlo in mano ci si ritrova, con facilità e commozione, qualche radice dimenticata della nostra vita e un po’ di sorprendente attualità: come accade nell’episodio “Un tratto generoso” nel quale il povero Crossi, che ha un braccio paralizzato, viene pesantemente tormentato da quattro suoi compagni di classe capeggiati dal “rivoluzionario Franti” che laidamente ne mima la caricatura della madre erbivendola. Oggi lo si definirebbe un episodio di bullismo. Non disponiamo ovviamente del filmato da telefonino su You Tube, ma la descrizione che dell’episodio fa De Amicis non ha nulla da invidiare a questa attualissima tecnologia. E ci piace molto anche il finale di De Amicis, quello che ci piacerebbe fosse a conclusione di ogni episodio di bullismo nostrano: qualcuno degli altri compagni che prende le difese della vittima e un’autorità scolastica con tanta superiorità culturale e così forte autorevolezza da rendere impossibile il ripetersi di simili episodi.Bisogna ammettere in ogni caso che la lettura attuale di “Cuore” non è immediata come quella di “Pinocchio”, che del resto, è un fumetto in prosa quando ancora non esistevano i fumetti disegnati, e la desuetudine alla semplicità e alla banalità dei valori positivi a base dei rapporti umani e dell’identità culturale (guai a dire nazionale, ma si potrebbe anche in fondo) ne intonano, letto oggi, una certa uggiosità. Né potrebbe essere diversamente visto che il più cattivo dei personaggi, il cattivo dei cattivi, Franti, è, con le debite scuse, sì e no “un discolo”. Rispetto a Pinocchio, che sembra non necessitare di urgente ricollocazione da parte di Umberto Eco, Franti almeno non manda in galera il babbo e non ammazza a martellate un innocuo quanto innocente grillo; se è pur vero che durante la realizzazione del progetto di riorganizzazione rivoluzionaria della Cambogia ad opera di Pol Pot e dei Kmer Rossi, un sacco di padri finirono giustiziati su indicazione di inconsapevoli figlioli. Come pure in Germania durante la notte nazista. Non vogliamo certo fare paragoni fra i due regimi. Non sarebbe politically correct, essendo del tutto uguali. Prendiamo purtroppo atto che ormai qualcosa è cambiato e nelle storie veicolate oggi dai vari media, da film, tv, videogiochi, il cattivo ha il ruolo centrale di protagonista reale mentre il buono altro non è che un suo sussidiario, il complementare necessario per reggere la storia. Tanto fece scalpore, alcuni anni indietro, il risultato di un’indagine a questionario fra giovanissimi spettatori della versione restaurata di “Biancaneve” di Walt Disney che assegnava quasi unanimemente la qualifica di personaggio più simpatico alla strega malvagia. A farla breve, rileggendo “Cuore” ci si trova a fare i conti, faccia a faccia, con la propria coscienza, con il dover ammettere che moltissimi dei famosi valori dei quali si lamenta la scomparsa a ogni piè sospinto, o quanto meno l’appannamento, sono quelli che caratterizzano i personaggi di questo libro. Sarà noioso, ma è così: altruismo, rispetto per le istituzioni, generosità, disinteresse personale, orgoglio di appartenenza, onestà. Possiamo anche non commuoverci ma forse rifletterci non sarebbe del tutto inutile. Per correttezza, e per non risultarne troppo improvvisamente turbati, è bene sapere che in “Cuore” si incontrano, tra i personaggi comuni, persino dei genitori che - cosa incredibile! - parlano ai loro figli: da genitori, non da compagni di gioco, come prescrive oggi un approccio, come dire, pedagogicamente adeguato. Fin qui il nostro rapporto con questa opera specifica che è di tipo personale e intimo e non necessariamente di valore e valenza letterarie, anche se ci sarebbe da discuterne. E forse potrebbe scaturirne anche qualcosa di buono, anche senza rimettere in discussione l’“Elogio di Franti”. Di ben diversa portata, invece, l’anniversario dell’autore, che in opere meno conosciute, ci può essere utile a confrontare esperienze e note di viaggio di fine Ottocento con le modalità turistiche del mordi e fuggi odierno, gestito da volonterose agenzie esperte in viaggi lampo, in alberghi tutti uguali e in monumenti che paiono più set cinematografici che non depositi di storia e di cultura. I titoli: “Spagna”, “Ricordi di Londra”, “Olanda”, “Marocco”, “Ricordi di Parigi”, e lo straordinario “Costantinopoli”. E perché non sfogliare anche quel “Amore e Ginnastica”, romanzo ironico più che comico, come viene comunemente classificato, un’anomalia curiosa per un autore come De Amicis, e opera apprezzata da un letterato del calibro di Italo Calvino. Di De Amicis, in un anniversario degno, si possono rivalorizzare le testimonianze di modi di essere e vedere del nascente movimento operaio e socialista dal punto di vista descrittivo di ambiente, senza il filtro polarizzatore della visione “politica” del tempo. Così “Sull’Oceano”, sulla condizione degli emigranti; “Il romanzo di un maestro”, “Maestrina degli operai”, e “La carrozza di tutti”. E infine un ragionamento sulla lingua, in un Paese da pochissimo riaggregato a livello nazionale e che non aveva nemmeno una lingua comune con il suo novanta per cento di analfabeti. Argomento questo sul quale De Amicis interviene con l’opera “L’idioma gentile”, nella quale critica la trascuratezza dell’insegnamento dell’italiano nella scuola, incrociando i ferri nientemeno che con Benedetto Croce. Stravagante ci appare oggi l’appunto, che questi rivolge proprio a questa specifica considerazione del De Amicis: “Il possesso dell’arsenale degli utensili linguistici premessa indispensabile al parlare e allo scrivere un corretto italiano”, e cioè che non si può considerare la lingua “un utensile”. In fondo questo problema si pone, sia pure su questioni e con modalità diverse, un po’ in tutta l’opera di De Amicis scrittore, nel quale il temperamento prevale su ogni altra caratteristica. Va comunque riconosciuto il merito a “L’idioma gentile” di aver riaperto ai primi del Novecento una questione che, da Alessandro Manzoni, necessitava, dopo mezzo secolo di evoluzione, ed è il mezzo secolo dell’unificazione del Paese, di essere per lo meno aggiornata. E si può infine concludere il nostro excursus anche con un passaggio sulla sua prima opera “La vita militare”, una raccolta di bozzetti e temi sulla propria esperienza militare. Egli tra l’altro, da militare di carriera, prese parte alla battaglia di Custoza nella terza guerra di Indipendenza col grado di luogotenente.Curioso no? In un autore così poco considerato dalle corti islamiche dei benestanti e scrupolosi intellettuali nostrani, trovare tanta ironica critica dell’istituzione militare. Ma in fondo, bisogna ammetterlo, tutto questo è troppo per un centenario solo, meglio un centenario dimenticato, meglio un anniversario smarrito.".