31 maggio 2009

L'Europa che vogliamo


In vista delle elezioni europee l'Associazione culturale "Identità Europea" di cui fanno parte fra gli altri i proff.ri Franco Cardini, Francesco M. Agnoli, Luigi Copertino, Sergio De Vita, Giovanni Mariscotti, Adolfo Morganti, Delio Napoleone, Marco Rainini, Fabio Toffano, ha pubblicato questo manifesto.

L’incredibile, quasi assoluta indifferenza con cui in Italia è trascorsa la giornata in cui si commemora la Festa dell’Europa Unita, il 9 maggio scorso, nonostante l’imminenza delle Elezioni Europee del 6 e 7 giugno prossimi, sono il segno di una colpevole e generalizzata disattenzione delle istituzioni e dei partiti nei confronti di questo importante appuntamento, da cui ci attendiamo un cambiamento profondo dell’Europa Unita: questa volta voteranno 27 paesi e non 15 come nel 2004, e lo faranno dopo il fallimento dei tentativi di costruire una Costituzione europea scritta nel laboratorio di infinite mediazioni lobbystico-partitiche, e pertanto estranea e distante dai cittadini dell’Unione. Occorre oggi ripartire nel processo di consolidamento ed ampliamento dell’Unione Europea dalle comunità locali, e da una solida base di valori condivisi, frutto della storia della civiltà europea, sintesi delle cultura greco-romana, cristiana, nazionale ed irradiatasi anche al di là dei confini geografici dell’Europa: per vivificare le potenzialità di operare per il bene comune, in una comunità resa solidale da una concezione spirituale dell’esistenza.
Le Comunità locali debbono delegare all’Europa Unita la spada, la toga e la moneta, pur mantenendo comunque funzioni di controllo, grazie ad una partecipazione attiva che superi la tendenza ad una democrazia plebiscitaria a scarsa rappresentatività reale.
L’elezione diretta del Parlamento Europeo è quindi occasione per denunciare questa colpevole indifferenza alla quale noi ci ribelliamo. Fieri del nostro essere Europei (così come nel contempo Italiani ed anche liguri e campani, lombardi ed abruzzesi, siciliani e romagnoli…) e coscienti del momento storico che l’Europa Unita sta vivendo negli ultimi vent’anni, che ci hanno condotto dal crollo del Muro di Berlino alla rovina dei sogni di egemonia del “pensiero unico” liberista, chiamiamo tutti gli Europei a non disertare l’appuntamento elettorale del 6-7 giugno, a cogliere
l'opportunità offerta dal voto di preferenza per scegliere, pur nell'ambito di liste troppo spesso frutto della miopia di partiti timorosi delle vere capacità, i candidati più adeguati e disponibili ad impegnarsi su valori certi, a cooperare in prima persona per la diffusione di una concezione dell’Europa Unita vicina e solidale con le famiglie, le comunità locali, i corpi intermedi, le realtà spirituali del continente. Noi ci impegniamo alla costruzione dell’Europa Unita. Ma quale Europa?
L’Europa Unita che vogliamo costruire dopo il 2009 è:
- Una Comunità sociale, culturale e politica che in 50 anni ha fatto passi da gigante, ma che resta da completare nel prossimo decennio con il suo graduale allargamento ai Balcani ed il coinvolgimento – anche in forme plurali - degli Stati interni al continente che ancora restano fuori dall’Unione, piccoli e grandi che siano. Dobbiamo avere il coraggio di finire il lavoro iniziato dai Padri fondatori, senza snaturarne il progetto con utopie di altri spettacolari allargamenti, unicamente forieri di difficoltà istituzionali, condizionamenti esterni e conflitti.
- Una Comunità che si emancipi da ogni tentazione burocratico-dirigistica e sia capace di praticare in concreto la Sussidiarietà, rimettendo mano con determinazione a troppe leggi e procedure che l’hanno resa sempre più estranea alla passione di Verità e di socialità dei suoi stessi cittadini.
- Una Comunità rispettosa della ricchezza delle proprie radici storiche, culturali e
spirituali, tutte accolte senza censure e rimozioni né sincretismi, sconfiggendo ogni
tentazione di restringimento autoritario della libertà di pensiero e di ricerca al fine di imporre famigerate “verità di stato”.
- Una Comunità politica che in ciò apprenda dalla propria storia recente e pertanto si liberi da ogni residuo di tutte le ideologie del 900, e si fondi con chiarezza e decisione sul rispetto della persona umana dal concepimento alla morte, sulla valorizzazione dei suoi corpi intermedi naturali, sul riconoscimento del bene comune.
- Una Comunità ispirata dal primato della politica sull’amministrazione e sull’economia.
- Una Comunità capace con ciò di promuovere e tutelare un’economia sociale ed attenta al bene comune: verso un’economia solidale che liberi il lavoro dal produttivismo e emancipi la persona dalla logica della domanda e dell’offerta.
- Una Comunità capace di trasformare l'intero continente in un autentico spazio di giustizia e di libertà, realizzato non con il tintinnio delle manette, ma attraverso l'affermazione degli eterni principi del diritto naturale e il rispetto e la promozione della persona umana.
- Una Comunità capace di valorizzare le identità locali come il fondamento della propria identità comune.
- Una Comunità capace di darsi una politica estera concorde ed efficace, libera ed
autonoma da ogni interesse ad essa esterno ed estraneo.
- Una Comunità capace di difendersi grazie ad un apparato militare autenticamente libero e in grado di rispondere solo al popolo europeo, libero da ipoteche strategiche imposte dalla presenza di basi militari dipendenti in tutto o in parte da potenze extraeuropee: pertanto un’autentica potenza di pace, attore risolutivo in primo luogo nel contesto del Mediterraneo e del vicino Oriente, e in generale all’interno dei complessi equilibri di un mondo tornato finalmente multipolare.
L’Europa è una cosa troppo seria per abbandonarla ai burocrati ed ai politicanti!
Ai Cittadini, alle Comunità locali, ai Corpi intermedi, alle realtà spirituali vivi nella società Europea spetta oggi il compito di risvegliare ad una maggiore dignità e coscienza le Istituzioni locali, regionali, nazionali ed anche Comunitarie. La priorità assoluta oggi è quindi nobilmente culturale e morale assieme: costruire qualcosa che ancora non è stata creata, un’autentica coscienza patriottica europea.

29 maggio 2009

Paolo De Michelis.


Il nostro ricordo per Giacomo Matteotti non può essere assolutamente disgiunto da quello di un nostro conterraneo: Paolo de Michelis di cui quest'anno si ricorda il 120° anniversario della nascita. Ecco la sua biografia a cura dell'Istituto per la Storia della Resistenza in Provincia di Alessandria.

Paolo De Michelis nacque a Valenza Po (Al) il 24 febbraio 1889. Operaio orafo, aderì giovanissimo, nel 1904, al Partito socialista italiano e nel 1914, a venticinque anni, fu eletto consigliere comunale nella sua città natale. L'anno seguente fu nominato segretario generale della Camera dei lavoro della Confederazione generale dei lavoro di Alessandria, divenendo uno dei più rappresentativi organizzatori sindacali della provincia.
Collaborò attivamente come pubblicista a numerosi periodici locali tra cui "La Scure" di Valenza, "Bandiera Rossa" di Casale Monferrato, "L'Idea Nuova", settimanale della federazione socialista alessandrina e l'"Avanguardia", il battagliero organo nazionale d'informazione della Federazione giovanile socialista. Allo scoppio del conflitto mondiale assunse posizioni antimilitariste e fu attivo propagandista del neutralismo.
Nelle elezioni politiche del 1919, le prime con il sistema proporzionale, il Psi in Piemonte superò il 50% dei suffragi ed elesse in Parlamento ben 29 rappresentanti sui 56 attribuiti alla regione. Nel collegio elettorale della provincia di Alessandria, che comprendeva anche i comuni che nel 1935 sarebbero stati scorporati per formare la provincia di Asti, i socialisti ottennero il 44,9% dei suffragi, riuscendo a far eleggere ben 6 deputati, tra cui lo stesso Paolo De Michelis.
Per le sue riconosciute doti di organizzatore, fu nominato segretario del gruppo parlamentare socialista alla Camera dei deputati, composto da 156 deputati, meritandosi ben presto la stima dei principali leader socialisti dell'epoca.
Rimasto nel partito socialista dopo la scissione comunista del gennaio 1921, nell'aspro dibattito tra le correnti interne De Michelis si schierò con la frazione "centrista", capeggiata da Gregorio Agnini, che cercava di mediare tra le posizioni dei riformisti turatiani, sostenitori di una politica gradualista e i massimalisti guidati da Serrati, favorevoli all'azione rivoluzionaria e all'adesione all'Internazionale comunista. Il tentativo, destinato all'insuccesso per l'intransigenza della maggioranza massimalista, era quello di evitare una nuova scissione, attraverso un compromesso tra l'autonomia d'azione rivendicata dal gruppo parlamentare, in larga maggioranza riformista, e la direzione del partito, che non intendeva abdicare al suo ruolo di guida complessiva del movimento socialista, sindacato compreso.
De Michelis, che nel frattempo si era trasferito a Roma, aderì, nell'ottobre del 1922, al Partito socialista unitario (Psu), forte di oltre 80 deputati, che raccoglieva i dirigenti politici e sindacali riformisti espulsi dal Psi massimalista e di cui divenne segretario Giacomo Matteotti. Con il giovane deputato veneto egli strinse subito un forte sodalizio politico, diventandone il segretario particolare, fino al rapimento e all'uccisione del leader riformista nell'estate del 1924. A testimonianza di questo legame, Filippo Turati in una corrispondenza con Anna Kuliscioff, scriveva, all'indomani della scomparsa di Matteotti, che De Michelis "gli era accanto come un caro padre".
Nell'ambito delle attività organizzative del Psu, De Michelis aveva assunto nel 1923 l'incarico di segretario della Federazione interprovinciale Laziale-Umbra e l'anno seguente era stato inviato in Sicilia, quale fiduciario della direzione nazionale per promuovervi l'organizzazione del partito. Nel 1925, invece, fu nominato segretario della sezione di Roma.
Sciolto il Psu nel novembre del 1925 a causa dell'attentato a Mussolini compiuto da un ex deputato riformista, Tito Zaniboni, De Michelis, dopo la morte della sua compagna, lasciò la capitale e ritornò a Torino, per continuare la battaglia politica contro il fascismo oramai imperante. In Piemonte ricoprì il delicato incarico di fiduciario-segretario della sezione regionale del Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli), erede del disciolto Psu.
Il Piemonte era una delle ultime roccaforti dell'opposizione al fascismo ed in particolare una roccaforte dei riformisti, che nelle elezioni del 1924, contrassegnate dalle violenze squadriste, erano stati il primo partito della sinistra nella regione, sopravanzando sia il Psi massimalista che il Pcd'l di Gramsci e Togliatti, ottenendo oltre 50.000 voti e portando in Parlamento ben tre deputati (Giulio Casalini, Oddino Morgari e Bruno Buozzi).
Abbandonata l'attività politica durante il ventennio, De Michelis dopo la caduta di Mussolini, nel luglio del 1943, si recò a Casale Monferrato per riallacciare i rapporti con i vecchi compagni socialisti e dopo l'8 settembre partecipò attivamente alle riunioni del locale Comitato di liberazione nazionale che operava nel comprensorio casalese e a Valenza.
Per questa sua attività resistenziale De Michelis fu arrestato nel marzo del 1944 e condotto alle carceri "Nuove" di Torino, dopo essere transitato nella caserma di via Asti, luogo di tortura delle milizie nazi-fasciste operanti nel capoluogo subalpino.
Dopo la liberazione riprese il lavoro di riorganizzazione delle disperse file socialiste che si erano riunite nel Psiup (nato nel 1943 dall'unione del Psi, con il "Movimento di unità proletaria per la rivoluzione socialista" (Mup) di Lelio Basso e l`Unione proletaria italiana" (Upi) di Giuliano Vassalli e Achille Corona), assumendo l'incarico di segretario della federazione provinciale di Alessandria.
Nelle consultazioni del 2 giugno 1946, De Michelis fu il terzo degli eletti socialisti alla Costituente, con 16.733 preferenze personali, per la circoscrizione del Piemonte Sud (Cuneo-Alessandria-Asti), dopo Giuseppe Romita, ministro dell'Interno e Umberto Calosso, la popolare "voce" di Radio Londra.
Nel gruppo socialista alla Costituente De Michelis ritornò a ricoprire l'incarico di segretario, che aveva svolto prima del fascismo sia nel Psi che, dopo il 1922, nel Psu (n.d.r.: dal sito della Camera dei Deputati, si apprende con precisione che fu capogruppo parlamentare dal 15 luglio 1946 al 7 febbraio 1947 sostituito poi da Pietro Nenni, e segretario dello stesso gruppo dall'8 febbraio 1947).
L'acceso dibattito interno al partito socialista tra i sostenitori di un'alleanza organica con i comunisti per approdare, in tempi brevi, ad un partito unico dei lavoratori e i fautori, al contrario, di una maggiore autonomia del Psi rispetto al Pci, sfociò nella scissione di Palazzo Barberini e la fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani, erede del Psu pre-fascista. A differenza della stragrande maggioranza dei riformisti, De Michelis decise di non aderire al Psli per continuare la sua militanza nel partito socialista.
Il suo contributo in sede costituente lo diede soprattutto nell'ambito delle cinque diverse commissioni di cui fece parte per l'esame di disegni di legge governativi, per lo più in materia di norme elettorali. Raramente intervenne in aula se non per interrogazioni a tutela di interessi delle popolazioni locali. li 29 marzo 1947 fu delegato dal gruppo socialista per commemorare il dodicesimo anniversario della morte, in esilio, di Filippo Turati.
Nelle elezioni del 18 aprile 1948 fu candidato, in rappresentanza dei socialisti, nelle liste del Fronte popolare nella circoscrizione di Cuneo-Alessandria-Asti. Come accadde in moltissimi collegi, la maggiore forza organizzativa dell'apparato comunista consentì ai candidati del Pci di sopravanzare quasi ovunque i socialisti (i deputati del Psi saranno solamente 42 sui 183 eletti del Fronte) e De Michelis, nonostante l'appoggio di tutte e tre le federazioni del Piemonte Sud, non fu più rieletto.
Morì nel 1961 all'età di settantadue anni.

FONTI E BIBLIOGRAFIA
Dati personali e attività politica fino alle leggi eccezionali dei 1926 si possono trovare nel suo fascicolo in Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale, da cui sono tratti i cenni biografici che si arrestano a tale data: De Michelis Paolo,in Franco Andreucci - Tommaso Detti, "Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943", vol. V, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 211-212. Sul periodo successivo, e in particolare sulla riorganizzazione del Psi in Piemonte e la partecipazione alla Resistenza, cfr. G. Subbrero, La divisione Matteotti "Marengo ": profilo di una formazione partigiana, "Quaderno di storia contemporanea", 1994, n. 15, pp. 5583. Sul ruolo alla Costituente vedi Atti dell'Assemblea Costituente, Roma, 1946-1948; e ad indicem R. Ruffilli, "Cultura politica e partiti nell'età della Costituente", Bologna, Il Mulino, 1979, vol. 11.

A Noemi, preferisco Samantha


Su "NonsoloNapoli" ecco il preciso commento ad una bella notizia.

Viviamo in un periodo mediocre. La banalità ci circonda, riempendo un vuoto fatto di nulla.
Subiamo una società fatta di futile esteriorità, di valori effimeri, di pochezza di contenuti.
In televisione si ammazzano per sparlare delle presunte scappatelle del Premier.
Della tal cosa, l'unica a beneficiarne, è la diciotenne Noemi Letizia, acerba ragazzina a breve famosa.
Proprio in questi giorni, una notizia davvero bella, è passata quasi nel silenzio e nell'indifferenza. Nel nostro Paese, il merito conta poco. Anche quando se ne ha tanto, la notizia non crea più clamore. Per la prima volta infatti, l'Italia avrà una donna astronauta! Da noi ahimè, conta di più chi vince l'isola dei famosi - di cosa???
Il suo nome è Samantha Cristoforetti, selezionata in questo ruolo dall'ESA - European Space Agency.
Samantha ha 32 anni è tenente dell'Aureonatica Militare Italiana.
Due lauree. La prima in ingegneria meccanica, ottenuta all'Università di Monaco di Baviera (n.d.r.:con specializzazione in propulsione aerospaziale e strutture leggere, presso la Technische Universtitä München).
La seconda in Scienze Aeronatiche, presso la prestigiosa Accademia di Pozzuoli (n.d.r.: corso Borea V).
Premiata con la "Sciabola d'Onore": onoreficenza attribuita all'allievo che nei primi tre anni di corso, si classifica sempre primo.
Tra le prime donne in Italia a diventare pilota militare. La Cristoforetti ha frequentato con ottimi risultati anche la Scuola Superiore di aeronatica di Tolosa e di Mosca. Attualmente le sue mani comandano la cloche degli AM-X e degli AM-XT del 32° Stormo di Amendola (n.d.r.:in precedenza aveva ottenuto l’abilitazione al volo su T-27, T-38, MB339).
La tenente-ingegnere-pilota parla perfettamente il tedesco, l'inglese, il francese e abbastanza bene il russo.
Come hobbies ama la lettura, lo yoga, il nuoto, lo sci, la speleologia e la mountain-bike.
Dovendo scegliere con chi andare a cena, non avrei dubbi. Preferirei la top gun, sicuramente avrebbe molti più "argomenti"... di discussione.

27 maggio 2009

Io cammino accompagnato dal dio della guerra e dal dio della fortuna!



Il commento su Marengo (v. qui) ha suscitato una serie di commenti sui quali è necessario “dire qualcosa”.
Innanzittutto, il personaggio Napoleone.
E’ notorio che l’Empereur suscita sempre valutazioni e, perché no?, sentimenti contrastanti: comunque, mai di “mezza misura”; o lo si ama o lo si odia. E’ per questo che bisogna trovare di lui gli elementi che unificano i giudizi, non quelli politico-militari che dividono.
Ed allora è meglio subito fare chiarezza, anche se dobbiamo dire che è sempre un po’ arrischiato il valutare personaggi ed eventi storici con il metro contemporaneo. Tutto dovrebbe essere sempre rapportato al tempo in cui è avvenuto.
Dunque il Corso dopo la disastrosa campagna d’Egitto (n.d.r.: ah le piramidi, mah!) il 9 ottobre 1799 tornò in Francia con l’obiettivo di rovesciare il Direttorio che, preoccupato della sua crescente popolarità, era ben deciso a ridurne i poteri.
Giunto a Parigi, riunì i cospiratori. Dalla sua parte si schierarono il fratello maggiore Giuseppe e soprattutto il fratello Luciano, allora presidente del Consiglio dei Cinquecento, che con il Consiglio degli Anziani costituiva il potere legislativo della Repubblica. Dalla sua riuscì ad avere il membro del Direttorio Roger Ducos e soprattutto Emmanuel Joseph Sieyès, il celebre autore dell'opuscolo Che cosa è il Terzo Stato? e ideologo di punta della borghesia rivoluzionaria. Inoltre, con lui si schierarono l'astutissimo ministro degli esteri Talleyrand e il ministro della polizia Joseph Fouché. Barras, il membro più influente del Direttorio dopo Sieyès, conscio delle capacità del giovane generale, accettò di farsi da parte.
Fatta trapelare la falsa notizia di un complotto realista contro la Repubblica, Napoleone riuscì a far votare dal Consiglio degli Anziani e da quello dei Cinquecento una risoluzione che trasferiva la loro riunione il 18 brumaio (9 novembre) fuori Parigi a St Cloud e si fece nominare comandante di tutte le forze armate.
Ciò fu fatto per evitare che durante il colpo di Stato qualche deputato potesse sollevare i cittadini parigini per difendere la Repubblica. L'intenzione di Napoleone era quella di portare le due Camere a votare autonomamente il loro scioglimento e la cessione dei poteri nelle sue mani. Non fu così: il Consiglio degli Anziani rimase freddo al discorso pasticciato di Napoleone per far pressione su di esso, mentre quando lo stesso Napoleone entrò nella sala del Consiglio dei Cinquecento i deputati gli si lanciarono contro chiedendo al Presidente (suo fratello Luciano, come si è detto) di votare per dichiararlo fuorilegge (cosa che voleva significare l'arresto e la ghigliottina).
Addirittura, durante il discorso al Consiglio degli Anziani, l'amico e intendente di Napoleone, Bourienne, dovette zittire il suo padrone che arringava sconnessamente l'assemblea con frasi come: “Io cammino accompagnato dal dio della guerra e dal dio della fortuna!”.
Nel momento in cui sembrava che il colpo di Stato fosse prossimo alla catastrofe, a soccorrere Napoleone giunse il fratello Luciano, che nelle vesti di presidente dei Cinquecento uscì dalla sala e arringò le truppe schierate all'esterno, ordinando che disperdessero i deputati oppositori. Memorabile il momento in cui puntò la sua spada al collo di Napoleone e dichiarò: «Non esiterei un attimo a uccidere mio fratello se sapessi che costui stesse attentando alla libertà della Francia».
Le truppe, in gran parte veterani delle sue campagne, al comando del cognato di quest'ultimo, il generale Victor Emanuel Leclerc e del futuro cognato Gioacchino Murat, entrarono nella sala del Consiglio con le baionette innestate e dispersero i deputati. In serata, le Camere venivano sciolte e fu votato il decreto che assegnava i pieni poteri a tre consoli: Roger Ducos, Sieyès e Napoleone.
Come si vede, questa vicenda non fu solo un "affare politico", ma un vero e proprio "affare di famiglia": fratelli, cognati,.....
Nominati consoli provvisori, i tre nuovi padroni della Francia redassero insieme a due commissioni apposite una nuova costituzione, la Costituzione dell'anno VIII poi legittimata da un plebiscito popolare.
Si sa, tutti i colpi di Stato (anche quelli del ‘900) trovano, dopo, la “legittimazione popolare” e tutte le rivoluzioni si concludono con un colpo di stato.
Il Consolato avrebbe dovuto essere un governo dei notabili, in grado di assicurare la democrazia attraverso un complesso equilibrio di poteri. Questo progetto fu mandato all'aria da Napoleone il quale, pur in teoria detentore del solo potere esecutivo, aveva in realtà facile gioco nello scavalcare quello legislativo frammentato in ben quattro Camere. Fattosi nominare Primo Console, ossia concretamente superiore a qualsiasi altro potere dello Stato, Napoleone ricostruì la Francia con una struttura amministrativa fortemente accentratrice ma così perfetta che è rimasta tale fino a oggi, articolata in dipartimenti, distretti e comuni, rispettivamente amministrate da prefetti, sottoprefetti e sindaci. Le casse dello Stato furono risanate dalle prede di guerra e dalla fondazione della Banca di Francia, nonché dall'introduzione del franco d'argento che pose fine all'era degli assegnati e dell'inflazione. Concluse il Concordato con la Chiesa, ratificato dal papa Pio VII nel 1801, riconoscendo che il Cattolicesimo era «religione della maggioranza dei francesi» (benché non religione di Stato), ma non le riconsegnò i beni espropriati durante la rivoluzione. Nel campo dell'istruzione, istituì i licei e i politecnici, per formare una classe dirigente preparata e indottrinata, ma tralasciò l'istruzione elementare, essendo dell'idea che il popolo dovesse rimanere in una certa ignoranza per garantire un governo stabile e un esercito ubbidiente. Con il plebiscito del 2 agosto 1802 fu riconosciuto Primo console a vita, una carica che era molto simile alla figura del dittatore dell'antica Roma ad eccezione del fatto che nell'antica Roma il dittatore aveva un incarico a termine, pari a sei mesi. Napoleone, naturalmente lo occupò per molto più tempo essendosi poi autoproclamato Imperatore.
E’ questa la parte che interessa davvero.
Per una sorta di eterogenesi dei fini, quanto Napoleone fece come Primo Console (escluse le vere e proprie rapine - come quelle delle opere d’arte, sulle quali ritorneremo - e le persecuzioni perpetrate in nome della Francia) per consolidare il proprio potere e fare uscire la Francia della crisi, segnò l’avvìo dello Stato moderno, dell’organizzazione dello Stato inteso come complesso ordinato di strutture preposte alla gestione della cosa pubblica.
In questo consiste il contributo indiscutibile del Primo Console, non del generale né - tantomeno - de l’Empereur.
Anche in Italia, quando si trattò dopo l’Unità di porre mano all’organizzazione dello Stato, ci fu una discussione molto accesa sul modello al quale riferirsi, e l’avvento di Bettino Ricasoli segnò la scelta definitiva del modello francese fondato sulle prefetture.
Su questi temi, oltre il dato celebrativo e "nazional-popolare", pensiamo, dovrà cimentarsi il "nuovo Marengo". Peraltro, il monumento che celebra Napoleone nel cortile antistante la Villa, lo raffigura proprio in divisa da Primo Console.
Molto presto diremo la nostra, con un ragionamento complessivo e propositivo.

Nell'immagine: Napoleone al Consiglio dei Cinquecento il 18 brumaio.

25 maggio 2009

Marengo. Italia.


Iniziamo a dare il sommesso contributo del Circolo ad un possibile dibattito su Marengo, pubblicando la voce "Risorgimento italiano" dell’ "Enciclopedia Cattolica" (13 voll., Ente per l'Enciclopedia Cattolica, Roma 1949-1952, vol. X, coll. 971-977), di cui fu estensore il grande storico aostano Ettore Passerin d’Entreves (1914-1990).

l termine stesso di Risorgimento ci riporta alle aspirazioni letterarie ed accademiche dell’ultimo Settecento, nelle quali si trovano però ancor elaborate le premesse del risorgimento nazionale, neppur restando nell’ambito cultures. La classe colta settecentesca, protagonista del riformismo illuministico, ignora il patriottismo nazionale romantico che pur si alimenta della ricchissima tradizione culturale. D’altra parte il patriottismo regionale che si irrobustisce nell’età delle riforme già sviluppa elementi che verranno a dissolvere lentamente le «patrie» minori e i municipalismi esclusivi, ribelli ad ogni assetto più moderno. Vi contribuisce la polemica antifeudale, specie nel Mezzogiorno, democratizzando il senso dello Stato. Si ha pure un patriottismo anticuriale, fra i giurisdizionalisti di formazione gallicana o giuseppinista; si idealizza anche in Italia il «buon parroco» civilizzatore e «patriota» (che si vorrebbe più fedele al sovrano temporale che a Roma papale). Ma in Italia le correnti illuministiche e giurisdizionalistiche sono controbilanciate da un persistente attaccamento all’unità cattolica, dal riaffiorare di forti tradizioni di diritto naturale cristiano e da un «illuminismo cattolico» che ha ancora come modello il preilluminismo del Muratori.

Gli sviluppi più audaci del pensiero illuministico si hanno in Italia, sul terreno concreto dei problemi economici e sociali (A. Genovese, F. Galiani, P. Verri), dei problemi giuridico-istituzionali o educativi (G. Filangeri, C. Beccaria) nel quadro di un razionalismo affinato da esigenze prestoricistiche e pre-romantiche, prevalendo però ancora la tendenza ad un utilitarismo e ad un «individualismo sociale» (L. Salvatorelli): la polemica contro la «ragion di Stato» attenua sempre la sensibilità di questi riformatori di fronte a certi problemi di forza e di potenza politica. La crisi rivoluzionaria, suscitando ad un tratto problemi nuovi, svela i limiti del dispotismo illuminato e delle riforme dall’alto. Il cosiddetto giacobinismo italiano, che è un riflesso poco originale delle dottrine e della prassi francese, porta il senso della lotta viva, ancora ignoto al vecchio riformismo; lo scatenamento delle passioni rompe la crosta accademica di certe dispute, ma surroga spesso all’antica una nuova retorica. Non si può formare ancora, con forze proprie, un consistente organismo politico, capace di vincere regionalismi e provincialismi.

La distanza che irrimediabilmente disgiunge ancora ceti medi e patriziato progressivo dalle plebi si rivela appunto nel triennio repubblicano (1796-98) e nell’anno delle reazioni (1799) che vede il sacrificio dei «patrioti» napoletani.

Allora il Cuoco scopre una nuova politica, al di là degli ideali illuministici ed oltre le contraddizioni della «rivoluzione passiva»: una politica che però giustifica la redenzione delle plebi contadine asservite, attraverso l’eversione della feudalità, che gli sembra assai più urgente dei progetti di riforme legislative, della propaganda repubblicana, ecc., perché «il popolo non si muove per raziocinii ma per bisogni», e perché «le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto essere popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione». Questo nazionalismo, più culturale che politico, costituisce anche il limite del troppo decantato realismo di Vincenzo Cuoco, ma gli fornisce un’arma per mantenere una certa indipendenza spirituale pur quando si adatta alla nuova atmosfera dell’egemonia napoleonica, ed esercita un primo apostolato di patriottismo in senso nazionale con il milanese Giornale italiano: lo appoggia il maggior uomo politico della Milano napoleonica, Francesco Melzi d’Eril. Così la collaborazione al sistema francese dei migliori ingegni, specialmente a Milano ed a Napoli (dopo caduti i Borboni nel 1806, e più dal 1808, con l’avvento del regime murattiano), non esclude del tutto la possibilità di un palese sviluppo delle esigenze nazionali, anche a prescindere dall’opposizione di tendenze filo-inglesi, o legittimiste (l’aristocrazia siciliana con l’appoggio di Lord Bentinck; gli agenti borbonici, come il principe di Canosa; il clero e le popolazioni delle campagne, specie in Piemonte, nelle province già pontificie e nel Mezzogiorno, dove si ha un forte brigantaggio); sorgono pure società segrete (la resistenza antifrancese già s’inizia nel 1799 con la Società dei Raggi o Lega Nera, cui partecipa il generale La Hoz) soprattutto negli ultimi anni del periodo napoleonico (Carboneria, Adelfia, Italici puri: fra questi ultimi il Foscolo e Federico Confalonieri). Nel tempo stesso, la «nazione-guida» dei patrioti giacobini continua a portare, con le leggi e coi metodi amministrativi napoleonici, con l’esperienza (anche se in qualche modo addomesticata) delle assemblee politiche, inizialmente investite di certe responsabilità (Comizi di Lione del 1801), con la coscrizione e la formazione di un esercito composto di italiani e comandato in parte da italiani, che saran poi presenti in tutti i moti per l’indipendenza, l’insegnamento di un grande sforzo politico più europeo che francese, che doveva svegliare infinite energie, dare un colpo di frusta (M. d’Azeglio) a tutti i giovani assetati di azione e di «gloria» romantica.

La crisi del 1814 si presenta, ad un tempo, come momento risolutivo e come momento catastrofico, rivelando che nel gioco dell’equilibrio europeo, di nuovo affidato a un direttorio di potenze conservatrici, non c’è ancor nessun posto per uno Stato italiano.

Dopo la restaurazione sembra verificarsi un duplice ripiegamento delle esigenze patriottiche italiane: il liberalismo moderato e legalitario, che si modella sulle dottrine costituzionali inglesi e francesi, rientra in apparenza nell’ambito del riformismo diretto dalle monarchie paterne e limitato entro i ristretti confini degli Stati regionali, che risorgono quasi immutati, dopo la bufera; in secondo luogo, l’ideologia legittimistica difende con ragioni affatto opposte allo spirito riformistico le tradizioni, i diritti storici, le consuetudini anche del tutto irrazionali. Anche la cultura romantica è influenzata da questa forma estrema dello spirito controrivoluzionario, ma in Italia il romanticismo, nazionale in politica, è piuttosto figlio del Settecento preromantico di Alfieri e di Rousseau, o dell’italianizzante Sismondi (che ha dietro di sé la più vivace scolta del liberalismo staeliano) che del misticismo politico di certi teorici legittimisti francesi o tedeschi.

Una strana ambiguità del patriottismo nato negli anni napoleonici consente atteggiamenti lealistici verso i sovrani restaurati e nel tempo stesso velate nostalgie per un «bonapartismo liberale» fugacemente avvertito nel 1815; oppure anche ammirazione per gli allori militari raccolti nelle guerre dell’Impero, e nel tempo stesso venerazione per la «resistenza nazionale» degli spagnoli contro Napoleone, tanto da poter idealizzare la guerra per bande contro lo straniero e le disperate difese delle città assediate (così lo stesso moderato Cesare Balbo, negli Studi sulla guerra dell’indipendenza di Spagna e Portogallo, scritti nel 1817, ma pubblicati trent’anni dopo: in senso diverso, con premesse ideologiche più radicali, la guerrilla spagnola viene additata a modello dal Bianco di S. Jorioz, nel 1830).

Il Montanelli definisce meglio di altri l’ambiguità del movimento liberale-nazionale romantico, in uno scritto del 1856 sul «partito nazionale italiano», ch’egli dice concepito «non già nelle viscere della rivoluzione, ma in quelle della controrivoluzione», perché «lo straniero, contro di cui l’Italia pose per la prima volta il problema della sua personalità, il suo io nazionale, non fu il tedesco, ma il francese. Così, fu stretta una alleanza fra i partigiani del passato e gli apostoli dell’avvenire.... Chi diede il primo esempio di quest’alleanza fu la Spagna: ivi il monaco e il libero muratore, il medioevo e il sec. XVIII, la democrazia e la monarchia si diedero la mano sul campo dell’indipendenza nazionale». Ma la suggestiva definizione del Montanelli non sottolinea abbastanza le esigenze radicali, talora persino egualitarie, che si riconnettevano all’esperienza giacobina e che si riaffacciavano nelle cospirazioni patriottiche italiane del ’20 e del ’21, proprio col simbolo della Costituzione di Spagna; questa rendeva impossibile il sopravvivere di una classe aristocratica, attraverso una qualsiasi forma di rappresentanza distinta (Camera dei pari ereditaria). Intanto si ha piuttosto una convivenza ed una concorde discordia, che un consapevole amalgamarsi di dottrine, fra patriottismo repubblicano-radicale, collegato spesso ad un internazionalismo rivoluzionario (F. Buonarroti, L. Angeloni), e patriottismo monarchico-legalitario. Prima del 1830 l’internazionalismo conservatore della S. Alleanza sembra prevalere sull’internazionalismo rivoluzionario, ma stimola per contrasto la formazione di un’ideologia nazionale, specie in Italia. La «santa alleanza dei popoli» evocata più tardi dal Mazzini, e gli «stati uniti d’Europa» auspicati dal Cattaneo si trovano tuttavia in forma di idea germinante negli scritti dei democratici francesi intorno al 1830, o in giornali d’avanguardia come il Globe, nella sua seconda fase, e persino nella prima, per un ampliarsi degli ideali del liberalismo legittimistico.

Già nel Conciliatore (1818-19), che è la voce più alta del movimento rinnovatore della cultura italiana dopo la restaurazione, motivi illuministici, legati all’utilitarismo ed empirismo settecentesco, si mescolano a motivi nuovi, attinti anche al romanticismo tedesco, attraverso la Staël, e il di Breme (questi propone una «poesia cristiano-euroropea»: mentre il Borsieri definisce la «idea dello spiritualismo, del cristianesimo e del genio cavalleresco» come «i tre principali elementi della Romantica»). In realtà, la gran polemica dei romantici italiani porta continuamente al di là dei confini delle vecchie dispute letterarie, vertendo sul contenuto della nuova letteratura e sul concetto stesso di civiltà: ma non risolve affatto i contrasti speculativi di cui si è fatto cenno. Soltanto alla fine del secondo decennio dell’Ottocento il Rosmini affronta la grande impresa di una «restaurazione filosofica», per sconfiggere il sensismo. Non si ha tuttavia, nel campo della cultura e dell’azione politica, un equivalente italiano del movimento cattolico francese di quegli anni, sicché i discepoli italiani del La Mennais fanno figura di teorici isolati, sia che adottino le idee controrivoluzionarie della sua «prima maniera» (come un Cesare d’Azeglio), sia che condividano le speranze de L’Avenir dopo il 1830. Il cattolicesimo liberale italiano convive con la cultura laica di filiazione illuministica, fra consensi e dissensi.

La Sinistra romantica italiana si afferma più vigorosamente con gli scritti e con l’azione del Mazzini, non senza aver attinto inizialmente alle stesse fonti a cui avevano attinto i liberali moderati: al primo «nazionalismo culturale» del Cuoco, al democraticismo religioso di certi rivoluzionari, di scuola roussoviana; allo spirito rinnovatore degli enciclopedisti. La lettura dei Promessi Sposi induce il Mazzini ad abbandonare, intorno al 1827, il pessimismo foscoliano (D. Bulferetti). L’europeismo mazziniano si inserisce in quelle correnti di cultura politica che, ricollegandosi sopratutto al più avanzato liberalismo e democraticismo francese (A. Thierry, H. de Saint-Simon, P. Leroux, ecc.), sognano un’Europa affatto diversa da quella uscita dalle mani dei diplomatici, con la «politica dei Congressi», e concepivano le varie nazioni europee quali grandi individualità collettive, chiamate a cooperare in una comune missione di civiltà. Il concetto di civiltà si riempie allora, come quello di «Progresso», che sempre si intreccia ad esso, di un contenuto etico-religioso: dai primi compromessi fra spiritualismo ed utilitarismo empirico, che son caratteristici delle scuole degli ideologi francesi (e in Italia trovano corrispondenza nelle dottrine di un Romagnosi) si passa ad un moralismo estremo: questo si associa, nel romanticismo di sinistra, con una mistica dell’apostolato attivo. Dove la «scuola democratica» intende spezzare gli argini, creare un nuovo costume ed un nuovo edificio sociale e politico, poiché l’antico appare radicalmente corrotto, il moderatismo s’accontenta invece di una lenta preparazione di una riforma dell’educazione popolare, che del resto commuove lo stesso Mazzini, a un certo punto: ma le forzate conciliazioni e i compromessi ambigui cui spesso occorre indulgere fanno sì che l’intransigente pensatore ligure accusi i moderati di opportunismo o addirittura di «ateismo politico». Il distacco del Mazzini da certe tradizioni rivoluzionarie, dall’egualitarismo socialisteggiante, ma con sfondo etico, di un Buonarroti, ha una motivazione sociale, nella necessità di attrarre e sé le classi medie colte, solo possibile sostegno della rivoluzione nazionale in Italia; ha una motivazione culturale più profonda, nel rinato senso storico, di cui partecipa quasi per intero la «scuola democratica» da lui fondata. Anche l’azione rivoluzionaria è concepita come un’interpretazione del gran disegno tracciato dalla provvidenza storica, che si contrappone alla Provvidenza trascendente dei cristiani.

Il culto romantico per la spontaneità creativa, che si applica tanto all’individuo singolo quanto alle individualità collettive, avvicina i democratici — si pensi alla confutazione mazziniana del primato francese — agli spiritualisti cristiani, credenti anch’essi in un progresso che è un operare creativo, e porta l’uomo quasi a gareggiare con la Divinità (Gioberti). Ma nella «dottrina cristiana del progresso» vi è una tentazione panteistica spesso respinta: basti ricordare le polemiche fra il Rosmini e il Gioberti, su questo punto, ed è notevole che in Italia si seguano con interesse anche le analoghe discussioni svolte fra cattolici e laici in Francia, come prova la traduzione uscita a Milano, nel 1850, del Saggio sul panteismo nelle società moderne, di E. Maret. Nel concetto mazziniano del progresso, che si definisce come una «legge morale», ma è legge in certo senso deterministica, tanto più quando ha per sua incarnazione la comunità incorruttibile simboleggiata nella «terza Roma», l’inclinazione panteistica non trova invece alcun limite, alcun punto di arresto.

In pieno contrasto con le tendenze speculative e pratiche dell’apostolato mazziniano, ma non senza qualche notevole punto di contatto, il cattolico Gioberti tenta dopo il ’40 di far leva sul «ceto laicale colto», cioè sulla borghesia liberale, per un r. alieno da ogni violenza e da ogni azione illegale; poiché la stessa legalità appare ai moderati come una garanzia di moralità e fonda tutta la loro polemica contro le «sètte» corruttrici e violente.

Il «moto piononistico» sorto all’improvviso dal contatto fra radicate tradizioni cattoliche e le aspirazioni nazionali-liberali, fra il 1846-48, con le prime iniziative riformatrici del nuovo Papa, fa rientrare nell’alveo del cattolicesimo molte delle impazienti rivendicazioni del liberalismo e dello stesso democraticismo italiano. Di recente, autorevoli studiosi laici hanno constatato la portata europea del movimento di opinione che prende origine dall’idealizzazione dell’opera del mite Pontefice: tanto da far concludere che ne sia nato il più potente impulso alla rivoluzione europea del 1848. Senza dubbio, le idee di patria e di religione furono allora, e per un certo tempo, fuse e quasi confuse insieme (Salvatorelli) e il penoso distacco fra gli ideali mondani e quelli religiosi parve condurre addirittura ad una «crisi religiosa» nell’opinione italiana (S. Jacini). A ben vedere, i termini della crisi esistevano da tempo nei contrasti speculativi ed etico-religiosi che dividevano internamente la cultura italiana ed europea, e rompevano spesso la coerenza dei più sinceri atteggiamenti individuali (v. neoguelfismo).

Se le stentate iniziative di riforma dei principi italiani ci interessano, come un estremo sforzo degli Stati regionali per adeguarsi alle necessità dei tempi, ben più ci interessano le sentite e spontanee manifestazioni di volontà e di coscienza politica nelle varie popolazioni italiane. Un difetto di organizzazione, di esperienza, di senso unitario vizia tutto lo sforzo che sfocia nella «guerra federale». Lo stesso Pio IX, pur diffidando della «febbre italiana» per quello che vi era in essa di esclusivo, mondanamente assoluto e di religiosamente contingente giunge a far sua la causa italiana anche dopo la famosa Allocuzione del 29 apr. del 1848, che delude i fautori della «crociata» neo-guelfa: nella lettera inviata per tramite del Corboli-Bussi all’Imperatore d’Austria egli consacra ancora il principio di nazionalità, fuor d’ogni ricorso alla violenza, appellandosi alla pietà del sovrano affinché rinunci ai suoi possessi italiani.

L’estremo punto della rivoluzione quarantottesca attinge, in Italia, con l’instaurazione di governi democratici, repubblicani, fondati sul principio della sovranità popolare, dal quale pure si deduce la necessità di una Costituente nazionale e di assemblee costituenti parziali elette e suffragio universale: ma quest’instaurazione

Di democrazie non si ha che a Firenze, a Venezia ed a Roma e soltanto a Roma si deducono tutte, o quasi, le conseguenze ideologiche dei principi teoricamente elaborati. D’altra parte, le premesse dottrinali non son sufficienti a qualificare un regime: la Repubblica Romana ci interessa soprattutto per certe trasformazioni sociali, studiate dal Demarco, e per certa moderazione pratica di fronte alle convinzioni cattoliche della gran maggioranza.

Dopo la catastrofe del ’48 si ha, da parte dei maggiori e dei migliori patrioti, un esame di coscienza che riveste talora per lo storico, un valore particolare: si pensi all’archivio triennale del Cattaneo, al Rinnovamento del Gioberti, agli scritti del Tommaseo, ecc. Ma in tali scritti gli «ideali del ’48» appaiono ancora spesso normativi: sussiste ancora una sorta di «profetismo» politico, specie Mazzini e nel Gioberti. I tempi sono realmente maturi per l’egemonia, o per la dittatura che questi affida Stato piemontese, ma non per rivelare nel processo storico quell’«onnipotenza delle idee» ch’è la sua fede mondana; né sorge il popolo-messia mazziniano. È l’ora, invece, del geniale possibilismo di Cavour, sostenuto del resto da un’etica liberale: egli utilizza gli elementi sparsi di un programma d’azione italiano: la politica dinastica sabauda, le idées napoléoniennes di Napoleone III, l’eredità dell’albertismo fra i moderati di varie regioni, la crisi del particolarismo, ormai sensibile persino nel Mezzogiorno borbonico, per lo meno fra i colti, che non di rado si trovano, espatriati, a condivider l’esperienza costituzionale piemontese. Ma per esser del tutto italiano, il programma di Cavour deve appunto, volente o nolente, accettare un confronto coi profetismi nazionali intransigenti: e si ha l’incontro fra guerra regia e guerra di popolo — dove una piccola minoranza rappresenta il «popolo» futuro — nel 1860. Incontro ben rispondente alle tradizioni del R., un po’ come la proclamazione di Roma capitale in fieri, ch’è l’ultimo gesto risorgimentale del Cavour.
Ettore Passerin

BIBLIOGRAFIA

Sul riformismo settecentesco, L. Salvatorelli, Il pensiero polit. ital. dal 1700 al 1870, Torino 1941; B. Brunello, Il pensiero polit. ital. nel Settec., Milano 1942; G. Capone Braga, La filos. francese e ital. del Settec., 2 voll., Padova 1942 (con la bibl.). Sul R. in generale, la voce di W. Maturi in Enc. Ital., XIX, pp. 434-39 (ivi i dati essenziali sulle collezioni di fonti riviste); C. Spellanzon, Stor. del R. e dell’unità d’Italia, 5 voll., Milano 1933-50, in continuazione (per i personaggi singoli, oltre alle voci comprese nell’Enc. Ital., e nella presente Enciclopedia, il Diz. Del R. di M. Rosi, Milano 1912-36, un po’ invecchiato; per i problemi principali, le Quest. di stor. del R. e dell’unità d’Italia, a cura di E. Rota, Milano 1951). Studi: limitando a segnalare gli studi più recenti, sui singoli problemi accennati in questa voce, si ricordano: C. Zaghi, Il Direttorio franc. e l’Italia, in Riv. storica ital., 2 (1950), pp. 218-56; M. Petrocchi, Il tramonto della Repubbl. di Venezia e l’assolutismo illuminato, Venezia 1950; E. Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell’Ottoc., Roma 1945; R. Romeo, Il R. in Sicilia, Bari 1951; V. Cuoco, Saggio stor. sulla rivoluz. di Napoli, a cura di G. Manacorda (che utilizza le due stesure del testo del 1801 e del 1806, con leggere varianti e modifiche), 2 voll., Milano 1951; V. E. Giuntella, La giacobina Repubbl. rom., Roma 1950; Il Conciliatore, Anno primo (3 sett. 1818-31 dic. 1818), a cura di V. Branca, Firenze 1948; G. Spini, Mito e realtà della Spagna nelle Rivoluz. ital. del 1820-21, Roma 1950; Studi su G. C. L. Sismondi, Milano-Bellinzona 1944; E. Morelli, G. Mazzini, saggi e ricerche, Roma 1950; A. Saitta, F. Buonarroti, Roma 1950 (più un vol. di docc., Roma 1951); A. Galante Garrone, Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento, Torino 1951; L. Salvatorelli, La rivoluz. europea (1848-49), Milano-Roma 1949; C.Cattaneo, Consideraz. sulle cose d’Italia nel x848, a cura di C. Spellanzon, Torino 1946; id., Dell’insurrez. di Milano nel 1848, a cura di A. Levi e di N. Bobbio, Firenze 1949; Epistol. di C. Cattaneo, 2 voll., Firenze 1949-52, in continuaz. a cura R. Caddeo; L. Bulferetti, Socialismo risorgimentale, Torino 1949; R. Aubert, Le pontificat de Pie IX (1846-78), Parigi 1952; inoltre la bibl. data alle voci PIO IX e NEOGUELFISMO, specie per i recenti studi di P. Pirri; F. Valsecchi, Il R. e L’Europa. L’Alleanza di Crimea, Milano 1948; A. Omodeo, Difesa del R., Torino 1951.

Nell'illustrazione: la sciabola che Napoleone portava a Marengo il 14 giugno 1800. E' stata venduta il 10 giugno 2007 all'asta per 4,8 milioni di euro. Si è trattato di un record per un pezzo appartenuto al "grande Corso" che, all'epoca, era - come è noto - il primo Console della Repubblica. La sciabola - battuta da una casa d'aste di Fontainebleau - è stata acquistata da un discendente della famiglia del fratello di Napoleone, Girolamo. Classificata come bene storico, era stata valutata tra 1,2 e 1,5 milioni di euro.

24 maggio 2009


Oggi ricorre l'anniversario della scomparsa di un indimenticabile amico: Franco Provera, al quale questo Circolo deve la sua origine trentadue anni fa'.
Lo ricordiamo facendo una pausa musicale, con una delle più belle canzoni di Riccardo Cocciante.



Mah!...rengo (2): Soldati, dall'alto di queste piramidi quaranta secoli di storia vi guardano.....


Abbiamo visitato il nuovo Marengo, ripetiamo il nostro: mah!
Troppa, troppa napoleonità, la Marsigliese: mah!
Anche la piramide...mah!
Illuminata è davvero bavarese, forse. Mah!
Poi, nemanco "lui, l'Empereur" la fece mai costruire: la volle sempre solo a parole. Aveva il potere assoluto...se avesse voluto...
Ma sapeva benissimo che le piramidi sono tombe. Anche le parole attribuitegli: "Voglio che qui sorga una piramide superba e degna di quelle anime generose, questa serberà eterna memoria dei fatti illustri", ci dicono che di una tomba si tratta. Quindi, un monumento funerario. Oppure (ma qui siamo in un altro campo) simbolico. E' un argomento intrigante: ne riparleremo. Nel frattempo, se si clicca sull'immagine del dollaro si troverà qualcosa di interessante...
Comunque, l'intervento complessivo è effettivamente superbo: bellissimo. Anche l'allestimento della mostra è notevole. Per non dire del restauro dell'apparato decorativo interno delle volte...tutto ok! Complimenti a chi ha dedicato a questo lavoro: intelligenza, competenza professionale, capacità...
Prendiamo atto, però, che l'iniziativa non è stata molto diffusa: a quanto pare non è stata data notizia nemmeno sul sito web della Provincia; che è mancata le vernice per il monumentale cancello esterno; che si è alterato l'assetto originario della Villa ponendo l'entrata sul retro, in quella che originariamente era la porta di servizio o carraia; che le bandiere ai lati dell'ingresso originario alterano la prospettiva della facciata che doveva rimanere libera; che la colonna commemorativa della battaglia: quella con l'aquila, davanti alla villa, avrebbe potuto essere messa a posto, ripulita, rifatta l'aiuola, etc.; che l'edicola in onore dei caduti di Marengo, di tutti i caduti, è stata lasciata in completo abbandono (polvere, guano e via dicendo...anche Desaix è stato abbandonato)...per non dir della piramide...era proprio necessaria, essenziale...ma è vero che è costata 800.000 €uri(?)...
Che ne è stato dell'originario "Progetto Marengo"?
Delle idee che sono state alla base dell'avvìo del Progetto?
Si ha l'impressione che si siano voluti affrettare i tempi, ma con quale risultato?
Presentando solo una bella "scatola", bella ma solo scatola.
Soffermiaci un momento: “progetto” deriva dal latino projectum che indica l'atto di "gettare una cosa avanti". Nel nostro caso, prendere una "cosa" dal passato e lanciarla nel futuro, dargli direzione e senso.
Quale direzione e quale senso sono stati indicati nel presentare il nuovo Marengo?
Non si è capito. Nella "fretta elettorale" si sono dimenticati i pur necessari contenuti.
Eppure, ben importanti erano i temi da avviare con questa inaugurazione.
Pare che Lui stesso alla vigilia della propria morte a S. Elena abbia detto: «Desaix, Desaix, ah la vittoria è nostra! Cos'è Marengo? Una Waterloo finita bene, come Desaix è un Grouchy arrivato al momento giusto»
Quindi, perchè limitare - anche se siamo solo alla fase iniziale - il discorso all'aspetto "francese" cioè "straniero", o alla dimensione guerresco-militare?! Si rischia di ridurre un'occasione di grande potenzialità ad una "macchietta". A questo proposito, si guardino qui sotto gli indimenticabili Laurel and Hardy:

23 maggio 2009

Mah!...rengo (1)



Oggi si inaugura "Marengo restaurato".
Non ci è però molto chiaro il progetto, sotteso ad un intervento così importante per il nostro territorio.
Avremo occasione di ritornarci, quanto prima.
Domani andremo a visitarlo.
Mah!...rengo.

22 maggio 2009

Europa?


"Il Sussidiario" pubblica questa significativa intervista al prof. Antonio Padoa Schioppa. Da leggere e meditare con cura...

Siamo nel pieno della campagna elettorale per le prossime elezioni europee, ma pochi cittadini probabilmente sanno per che cosa vanno a votare, e tuttora vedono le istituzioni di Bruxelles e Strasburgo come qualcosa di lontano e complicato. «Purtroppo - dice Antonio Padoa Schioppa, docente di Storia del diritto nell’Università di Milano - le elezioni europee diventano test utilizzati dai partiti per misurare i loro reciproci rapporti di forza a livello nazionale». Ma anche le istituzioni europee non sono immuni da precise “responsabilità”: «manca la codecisione del Parlamento su tutte le materie di competenza dell’Unione, e il Parlamento ha insufficienti poteri di bilancio. Eleggiamo dei parlamentari privi di un potere fondamentale di un organo rappresentativo».

Professore, le elezioni europee sono alle porte, ma per una serie di coincidenze elettorali assomigliano molto di più ad un voto amministrativo, non trova?

Le elezioni europee non sono e non devono essere elezioni amministrative, ma elezioni politiche, anche se coincidono in parte con una serie di elezioni locali. Sono però - e debbono essere - elezioni politiche relative all’Europa e alle scelte fondamentali per l’Europa, non surrogati di elezioni politiche nazionali. Invece, purtroppo, in questa campagna elettorale come in altre precedenti, le elezioni europee diventano dei test utilizzati dai partiti per misurare i loro reciproci rapporti di forza a livello nazionale. E la riprova è che nessuno sta parlando di quello che vorrà fare quando sarà a Strasburgo.

Può indicare qualche esempio di scelte che dovrebbero venire discusse dai candidati al Parlamento di Strasburgo?

Come esercitare i poteri del Parlamento, come decidere sulle risorse per investimenti a livello europeo, come posizionarsi rispetto al potere di veto del Consiglio dei ministri, quali scelte fare al livello europeo in tema di sicurezza, ambiente, energia, immigrazione? Su queste e altre questioni cruciali il Parlamento europeo, che rappresenta tutti i cittadini europei ed è il solo a farlo, deve pronunciarsi con chiarezza. Una campagna elettorale serve appunto per rendere chiare scelte di questa natura all'elettore. Invece le questioni chiave vengono eluse, non vengono discusse.

Qual è a suo avviso la ragione di questo deficit di dibattito, che è anche un deficit di democrazia?

Sta nel fatto che le istituzioni europee - Parlamento, Commissione e Consiglio dei ministri - non hanno ancora raggiunto un assetto istituzionale corretto. Nelle elezioni nazionali subito dopo i risultati sappiamo chi avremo come primo ministro e quale programma verrà attuato. Invece in Europa la Commissione, che è l’emblema del governo europeo, è proposta dal Consiglio e votata dal Parlamento, senza il voto positivo del Parlamento non può formarsi e se c’è la censura del Parlamento si deve dimettere; eppure i partiti europei prima delle elezioni non dichiarano agli elettori quali candidati alla Commissione intendano sostenere e quali programmi di governo per l'Europa intendano promuovere.

È un discorso che non riguarda solo le istituzioni ma anche i partiti?

Sì. I partiti europei purtroppo non hanno ancora applicato alle elezioni europee il meccanismo democratico applicato nelle elezioni nazionali, indicando un proprio candidato alla Commissione. I popolari per esempio hanno ricandidato Barroso, ma i socialisti non hanno ancora contrapposto un loro candidato e i liberali nemmeno. Se lo facessero, i cittadini andrebbero a votare non solo per eleggere dei parlamentari ma per decidere tra candidati e tra programmi di governo alternativi, come si deve fare in democrazia.

La disaffezione dell’elettorato investe naturalmente la posta in gioco: quanto conterà l’Europa?, viene da chiedersi. Ma pochi, probabilmente, sanno rispondere a questa domanda…

I cittadini non sanno che per la maggior parte le decisioni di politica economica non le compiono più i governi e i parlamenti nazionali, ma l'Unione europea perché non sono altro che l'applicazione di regolamenti e di direttive comunitarie. Il Parlamento europeo ha molti più poteri di quello che si crede, ma il cittadino non lo sa, perché i partiti non glielo fanno capire.

Cosa manca allora nel meccanismo istituzionale per essere democratico e virtuoso? Cosa manca all’Europa oggi?

A livello di Parlamento europeo mancano due cose. Innanzitutto la codecisione su tutte le materie di competenza dell’Unione. Attualmente nelle materie più importanti come la fiscalità, la politica dell’ambiente, la politica sociale, la politica estera, la difesa il Parlamento non ha la codecisione; è solo il Consiglio dei ministri che decide e per di più all’unanimità, con il potere di veto: basta che un governo sia contrario e non si fa nulla.
In secondo luogo il Parlamento ha insufficienti poteri di bilancio. E questo è molto grave, se si pensa che storicamente i parlamenti sono nati per controllare l’imposizione delle tasse da parte dei sovrani. Ebbene, il Parlamento Ue non ha potere fiscale, non può decidere un’imposta. Eleggiamo dei parlamentari privi di un potere fondamentale di un organo rappresentativo.

L’idea politica di Europa appare ancora stretta nella “tenaglia” di uno stato concepito come lo era fino al secolo scorso, e di una forma istituzionale più ampia, di tipo federale. Che cos’è da questo punto di vista il processo di costruzione europea?

Il progetto europeo è nato fin dall’origine, cioè fin da Jean Monnet e da Altiero Spinelli, come il progetto di una futura federazione, un po’ come sono ora gli Stati Uniti o la Svizzera. Questo era il disegno di chi ha voluto l’integrazione economica, ma l’integrazione politica resta da fare. Nel ritardo di questa costruzione pesano i malfunzionamenti istituzionali di cui ho parlato. Cosa accadrebbe in un qualsiasi organismo, dal governo nazionale alla semplice assemblea di condominio, se non si potesse decidere se non quando tutti sono d’accordo? In Europa siamo fermi esattamente a questo. Beninteso, la federazione europea della quale è auspicabile il completamento - perché in parte essa esiste già, là dove opera la codecisione dove si decide a maggioranza - non sarebbe una fotocopia di altre federazioni oggi esistenti nel mondo.

A che cosa dovrebbe assomigliare?

Sarà un modello altamente nuovo e originale, perché è la prima volta che un insieme di stati, che per secoli si sono combattuti sanguinosamente, stanno integrandosi pacificamente. È un fatto storico di enorme importanza. Per di più l'Ue potrà dare, e in parte già lo dà, un grande contributo al superamento delle politiche dei blocchi contrapposti, favorendo la crescita dell'Onu, la cooperazione internazionale, gli strumenti di pace attiva, la politica per l'ambiente a livello planetario, o lo sviluppo dei paesi poveri del pianeta. Il mondo di domani ha bisogno di un'Europa con una voce sola, vaccinata a proprie spese dai rischi terribili del nazionalismo.

Come spiega che a questo ancora non si sia giunti?

Perché i governi nazionali, tutti o quasi, hanno l’idea sbagliata che mantenendo il potere di veto difendono l’interesse nazionale. Riescono a paralizzare, ma non a costruire, perché per una volta che blocchi gli altri, dieci volte gli altri bloccano te. È l’impasse più grave. Il Parlamento non ha i poteri che dovrebbe, e il Consiglio dei ministri si paralizza da solo con il potere di veto.

Ma il federalismo europeo è davvero realizzabile?

Che sia realizzabile non ci sono dubbi, se e quando sarà realizzato non possiamo saperlo. Una cosa è certa: l’interesse del cittadino di arrivarvi è enorme. E una consapevolezza di questo nei cittadini europei c'è. Quando si fanno i sondaggi rivolgendo domande ben chiare, ad esempio “volete una difesa comune europea?”, “volete una politica estera europea?”, il livello dei sì tocca da anni il 60-70 per cento. Ma c’è la resistenza dei governi e delle classi politiche nazionali. Il governo tedesco per esempio ultimamente è stato molto timido nella sua risposta alla crisi. La crisi economica è una grande occasione che può permettere di fare un passo in avanti deciso oppure un pericoloso passo indietro nella costruzione europea. Ma ancora non è chiaro quale sarà la risposta dell’Europa.

Abbiamo visto le divisioni dell’Europa: il rifiuto di aiuto economico ai paesi dell’Est, le tentazioni neoprotezioniste, l’Europa intergovernativa. Quale può essere la risposta alla disunità dell’Europa?

Bisogna rendersi conto che certe decisioni, prese a livello nazionale o isolatamente tra i singoli Stati o con un semplice coordinamento di facciata non coprono bisogni che per essere soddisfatti in modo adeguato ed efficiente necessitano di misure assunte a livello europeo: ad esempio in tema di investimenti infrastrutturali, vigilanza bancaria, difesa, immigrazione, energia. Lo chiede il principio di sussidiarietà, che ha due direzioni e non una sola come spesso, sbagliando, si ritiene: la sussidiarietà deve operare, a volta a volta a seconda delle esigenze, verso l'alto oppure verso il basso. Se i bilanci nazionali per la difesa venissero messi in comune, è stato calcolato che l’efficienza a parità di spesa aumenterebbe vistosamente, con enormi economie di scala. E così per l'energia, così per la tutela dell'ambiente, così per gli investimenti su infrastrutture.

Qual è la sua opinione sulla questione del riconoscimento delle radici culturali dell’Europa?

Le radici ebraico-cristiane, al pari di quelle dell’epoca classica, greche e romane, sono di tutta l’Europa e non di una parte. La domanda diventa allora: ma se così è, queste radici occorre metterle nella costituzione? La mia risposta - che so benissimo non essere condivisa da tutti - è che non è necessario, e per due ragioni: perché le radici cristiane nell’ordinamento dell’Europa ci sono già, senza bisogno di nominarle. I principi di solidarietà e di coesione che stanno alla base del mercato unico non sono altro che nomi diversi del concetto di carità e di dignità della persona, che sono principi del cristianesimo. Contano le cose, non le parole, e questi principi culturali fanno parte del codice genetico dell’Unione europea.

Sa bene che in questo modo, come ha mostrato anni fa l’ampio dibattito sulle proposte di Valéry Giscard D’Estaing, il problema non è risolto…

Rispondo che forse è meglio non dirlo - come è meglio non citare altre radici - perché l’Europa ha sviluppato nel tempo un concetto di libertà di opinione, di espressione e di religione per cui tutti si devono riconoscere nell’Europa, il credente e il non credente, e un domani (perché no?) anche il musulmano. Purché tutti rispettino i principi costituzionali inviolabili a tutela dell'individuo e della democrazia che in Europa sono unanimemente riconosciuti. Anche la costituzione italiana - non così quella americana, che ha origini legate alle correnti religiose della riforma - è o dovrebbe essere la costituzione di tutti: non vi si parla di Dio, e tanto meno ovviamente lo si nega. Rinunciare a inserire per iscritto qualcosa in cui non tutti si riconoscono è a mio avviso la soluzione più lungimirante, per un’Europa che di fatto non è neutra ma ha “incorporato” nelle sue istituzioni i valori di cui parliamo.

21 maggio 2009

10 giugno 1924-2004: Giacomo Matteotti. Libertà, sempre!


Lo scorso anno il Consigliere comunale Ezio Sestini si era fatto promotore del ricordo di Giacomo Matteotti, organizzando - nel giorno anniversario della sua uccisione, il 10 giugno - una delegazione che rendesse omaggio alla lapide che lo ricorda nel Cimitero urbano. Particolarmente significativa fu la partecipazione del Sindaco di Alessandria, Piercarlo Fabbio. Ora, questa iniziativa è stata raccolta dal nostro Circolo (come noto Ezio Sestini è nostro Socio e Consigliere, ed è stato fra i promotori della nostra associazione) che da quest’anno si assume l’onere di organizzare non solo il ricordo “formale” di questo martire della libertà, ma - non appena possibile - anche tutta una serie di iniziative affinché quell’ideale di libertà che aveva animato l’opera del parlamentare socialista non vada perduto, anzi sia studiato, approfondito ed attualizzato. Quest’anno ricorre un doppio anniversario: l’85° della sua morte (1924-2009); ed il 60° (1949-2009) dell’inaugurazione da parte dell’allora Sindaco Nicola Basile di tale lapide che, come si legge nell’epigrafe, ricorda come in quel luogo durante la dittatura fascista, ogni anno nel Giorno dei Morti (il 2 novembre), “compariva” la fotografia di Matteotti contornata di fiori. Il prossimo mercoledì 10 giugno nell’anniversario della morte di Giacomo Matteotti, il nostro Circolo ripropone l’iniziativa che per decenni è stata un appuntamento annuale immancabile: rendere omaggio a questa memoria di libertà che unisce tutto il popolo alessandrino; ed INVITA TUTTI al Cimitero urbano alle ore 17 per dedicare un ricordo e rinnovare - anche con un piccolo gesto - l’impegno per la libertà.
Significativamente, il Circolo ha voluto cominciare la propria attività sociale con questa iniziativa: è il ritorno alla sorgente, è l'affermazione della nostra identità che - peraltro - è già proclamata nell'art. 1 del Statuto laddove si legge testualmente: "La Costituzione della Repubblica proclama il diritto di associazione e salvaguarda il principio della sussidiarietà, ed è sotto la tutela della Carta fondamentale dello Stato che è costituita un’associazione di uomini liberi denominata: Circolo di Studi Sociali di Alessandria", e soprattutto nel successivo art. 3: "Il Circolo è fondato sui valori universali della libertà e della democrazia, e si richiama alle idee di progresso e di giustizia ed ai valori etici, umanitari e solidaristici che costituiscono il patrimonio ideale, culturale e politico del riformismo, adeguati alle evoluzione ed alle circostanze dei tempi e dei rapporti sociali. Il Circolo, quindi, si riferisce ad un modello di società - fondata sui principi della democrazia sociale - che garantisce la libera iniziativa economica e la tutela delle classi deboli, capace di aggregare tutte le forze innovatrici impegnate ad ogni livello della società, di eliminare i conflitti, le divisioni ideologiche e le disuguaglianze sociali. Il Circolo è particolarmente impegnato nella difesa e nel rinnovamento dello Stato repubblicano fondato sulla Costituzione affinché tutti possano realizzare un’effettiva partecipazione alla direzione della società e dello Stato."

15 maggio 2009

Inizia la campagna elettorale.........

Le candidature sono state presentate, ora aspettiamo i programmi.
Ancora una clip con una bella canzone per pensare.....

01 maggio 2009

Politically correct....

Continuiamo con le clips.
Crediamo che una canzone bella e significativa come questa, valga un intero discorso.
In questo caso, ovviamente, si tratta di un ragionamento sul "politically correct".
Bravissimo, indimenticabile Giorgio!