23 luglio 2009

Terzo appuntamento con Petrucciani.

Questa è la prima parte della performance di Petrucciani all'Umbria jazz festival 1996.

15 luglio 2009

Il senso del riposo.


Da "Il Sussidiario" del 10 luglio.

Brano di conversazione captato in metropolitana nei giorni scorsi: «Ciao, come va?» «Insomma. Sono stanco e ho proprio voglia di fare le ferie per riposarmi un po’». A cena con amici l’altra sera: «Ma che faccia che hai!» «Beh, sai, ho tanto lavoro da finire. Ma adesso mi riposo». Sono i tipici dialoghi di metà luglio: le scuole sono finte, gli ultimi esami in università sono passati, al lavoro si sistemano, con un po’ di affanno, le ultime cose prima delle ferie, le fatiche di tutto un anno pesano e nei pensieri, nei dialoghi, nei progetti affiora con insistenza la necessità del riposo.
Forse, però, non ci interroghiamo sufficientemente su cosa significhi riposare. Rischiando così di passare dal faticoso meccanismo del lavoro a quello solo apparentemente meno invasivo delle vacanze: viaggi, prenotazioni, calcolo delle spese, divertimento più o meno organizzato e quasi forzato. Uno stress. Tanto che viene da dar ragione al Montale di Prima del viaggio: «E poi si parte e tutto é O.K. e tutto / é per il meglio e inutile».
Nel gergo militare «riposo» è il contrario di «attenti». Ma non credo che il vero sollievo del riposo sia dovuto al fato di non prestare attenzione a niente. È come dire che l’ideale della vita sarebbe spegnere ragione, emozioni, interessi, amori; buttarsi in un vuoto di pensiero, in una svagata sospensione dell’esistenza, un sonno della coscienza molto simile alla morte. Del resto, non posso immaginare che quando preghiamo per i defunti, chiedendo per loro l’«eterno riposo», domandiamo una perpetua disattenzione o la rinuncia a ogni moto e sentimento umano. Basta leggere qualche canto del Paradiso dantesco per accorgersi che quel regno di beatitudine riposante è pieno di attività: canti, balli, conversazioni, ricordi, preghiere, luci.
Per chiarirmi le idee sono andato a cercare l’etimologia della parola riposo. Ho scoperto che deriva dal greco pauo, che significa cessare da una attività faticosa, fermarsi. «Da cui – continua il dizionario etimologico – “poggiare”» e quindi l’espressione: «Riposare sopra qualcuno», cioè «confidare in lui». Ecco, questo mi convince. Riposo se, abbandonate per un certo tempo le faticose attività della vita quotidiana, posso «appoggiarmi» su qualcosa o qualcuno che merita la mia confidenza. E la meritano le cime montane guardate con la lunga calma di un tempo non assillato dagli orari; la merita l’infinità del mare e il silenzio di un bosco; la merita una cena con amici senza la preoccupazione di come comportarsi o di dire le parole giuste; la merita la curiosità per un quadro o un monumento in cui risplende il genio e la passione di grandi uomini che mi hanno preceduto; la merita un bel concerto, un buon libro e anche un pomeriggio passato a cucinare per coloro cui vuoi bene.
Il leopardiano pastore errante invidiava le sue pecore che, dopo aver mangiato, si riposavano quiete, mentre «s’io giaccio in riposo, il tedio assale». Ma non avrebbe mai scambiato la consapevolezza del suo bisogno infinito di pace, nascosto dentro la voglia di riposare, con l’incoscienza animale. Sapeva che il desiderio del riposo è, in fondo, urgenza di trovare un appoggio di cui si possa dire, come il salmo, «in Te riposa l’anima mia».
Pigi Colognesi

L' "afa e l'omega"...che cosa c’è dietro al fatto che l’arrivo del caldo d’estate diventa notizia da prima pagina.


Su "Il Foglio" di ieri.

Che a metà luglio “arrivi il caldo” è qualcosa che di per sé dovrebbe rientrare nella grande categoria delle cose ovvie, come che in America tutti guidano auto grandi (in attesa di quelle elettriche volute da Obama) o che di sera fa buio. Eppure ieri la notizia era sulla prima pagina del Corriere della Sera (e ha occupato per buona parte della mattinata l’apertura del sito Internet del giornale di via Solferino): “Ora arriva il caldo, fino a 40 gradi”. Che un’ovvietà diventi notizia da prima pagina è certamente curioso, e negli ultimi tempi non più spiegabile solo con la carenza di notizie durante i mesi estivi o col fatto che la gente parla volentieri del tempo che fa quando deve intrattenere un conoscente.
Restando nel paradosso si potrebbe dire che se il caldo a luglio fa notizia è perché il molto paventato riscaldamento globale non si sente poi così tanto, ma è vero che, come spiega al Foglio Carlo Stagnaro dell’Istituto Bruno Leoni, “parlare di caldo vuol dire ormai parlare di politica”. Senza disseppellire torbide dietrologie è facilmente osservabile che parlare del clima fa scattare in chi ascolta una serie di tic che conducono il pensiero all’ambientalismo tanto di moda: leggendo che “arriva l’afa” il primo pensiero non è più il ventilatore da comprare al più presto, ma tutta quell’anidride carbonica che dovremmo smettere di produrre.
Anche il giornalista collettivo (perché quello del Corriere di ieri è solo un esempio di un esercizio sempre più praticato dai media di tutto il mondo) è colpito dalla sindrome catastrofista, soprattutto da quando non ci è più dato di leggere la parola “clima” senza accanto la parola “allarme”. Secondo Riccardo Cascioli, giornalista e presidente del Centro europeo di studi su popolazione, ambiente e sviluppo, “è il clima culturale che fa scattare questi meccanismi; viviamo in un’isteria collettiva per cui se d’inverno fa freddo bisogna subito interpellare l’esperto che ci spieghi perché, e lo stesso vale per quando fa caldo a luglio o agosto”.
Dopo avere passato i giorni del G8 a scrivere che Obama e gli altri grandi “abbasseranno” la temperatura del globo bisogna pur dare forza alla notizia, e sulla carta stampata ripetere le cose dà la forte sensazione che queste siano vere. Certamente non è per caso che le notizie dei ghiacciai che si sciolgono escano tutti gli anni ad agosto: se durante una delle intense nevicate dello scorso inverno avessimo letto sui quotidiani che c’era il problema del riscaldamento globale non saremmo rimasti particolarmente scossi. Leggerlo a luglio fa invece guardare con occhi pieni di speranza alla conferenza sui cambiamenti climatici di Copenaghen di fine anno in cui il mondo sarà salvato e finalmente in estate la smetterà di fare caldo.
Piero Vietti

14 luglio 2009

Il tempo del denaro e la modernità secondo Charles Peguy.


Su "L'Occidentale", un ragionamento di Michela Nacci del 5 sc..

Perché può essere interessante oggi leggere Charles Péguy? Classificato nei manuali di storia del pensiero politico come nazionalista e reazionario, si considerava da parte sua socialista e cristiano. Come mettere d’accordo queste definizioni contraddittorie?

In effetti, Péguy incarna un eccezionale punto di osservazione su quella cultura che, fra Ottocento e Novecento, riflette sulla modernità chiedendosi che cosa sia esattamente. Una risposta che viene data dice: modernità è il tempo del denaro. Péguy la condivide, ma – come vedremo alla fine - in modo molto originale. Afferma: “E mai il denaro è stato, fino a questo punto, il solo padrone e il solo Dio. E mai il ricco è stato così al riparo dal povero e il povero così esposto al ricco.”

Tempo del denaro significa: tempo in cui la quantità, l’oggettività, la materia, il calcolo, l’economia, il peso dei bisogni, delle merci e dei prezzi, grava sugli esseri umani.
Tempo del denaro significa: tempo della grande industria, del lavoro meccanizzato, ripetitivo.
Tempo del denaro significa: tempo della massa, la massa creata dal lavoro, dalla città, dalla grande città, dalla scolarizzazione universale, dai giornali, dagli spettacoli che si dirigono a un pubblico indifferenziato, dalle merci in serie e tutte uguali fatte per un pubblico tutto uguale.
Tempo del denaro significa: tempo dell’uomo della folla di Edgar Allan Poe. E’ tempo di solitudine, di voyerismo, di doppio, di sosia, di fine dell’individualizzazione. Chi sono io? – ci si chiede. Chi sono gli altri? Quale è la differenza fra me e gli altri? Gli altri che mi sfiorano, che devono solo sfiorarmi, che devono rispettare la distanza, gli altri verso i quali sono curioso ma anche indifferente.
Tempo del denaro significa: tempo della solitudine, dell’isolamento, dell’abisso che si scava fra uomo e uomo.
Tempo del denaro significa: tempo dei politici di professione, di coloro che di mestiere lavorano nei partiti di massa che stanno nascendo proprio in quel momento. E’ il tempo dei politici e non dei mistici, come avrebbe detto Péguy. Il politico di professione lavora nella cosiddetta macchina di partito, e parla alla massa, alle masse.
Tempo del denaro significa: tempo del nervosismo, dell’eccitazione di tutti i sensi, della patologia mentale, della perdita del controllo, della perdita del contatto con il mondo, della perdita di sé. Il mondo si allontana da noi, e noi ci allontaniamo dal mondo. E ci allontaniamo da noi stessi. I mutamenti, le novità continue, le invenzioni che si susseguono, la novità come condizione normale del mondo, rendono incerto il nostro ambiente, precario, ci sottraggono la stabilità, la calma di cui abbiamo bisogno, creano la figura del nevrotico, dell’isterico (e più spesso dell’isterica), dell’alienato e dell’alienata, del degenerato.
Tempo del denaro significa: tempo dello scambio, dello scambio continuo, dello scambio accelerato, dello scambio di tutto con tutto, di tutti con tutti, del relativismo.
Tempo del denaro significa: tempo del capitalismo. Ma il capitalismo non è presente negli autori che riflettono sulla modernità. E’ presente il capitale, ma al modo pre-marxista di Proudhon. E’ presente il profitto, ma solo come guadagno iniquo, non dovuto. E’ presente il capitale necessario come credito, e il credito come denaro che indebitamente genera se stesso.
Tempo del denaro significa infatti anche tempo del credito, della speculazione, della Borsa.
Tempo del denaro significa tempo del commercio, del mercato, del mercanteggiare, del prestare a interesse, del far generare qualcosa che non può generare dal momento che è qualcosa di astratto, qualcosa che esiste solo della relazione e dello scambio, qualcosa che non ha un valore in sé ma che è solo universalmente fungibile.
Tempo del denaro significa tempo in cui è il denaro a generare valore, è il denaro (e non il lavoro) a generare denaro.
Tempo del denaro significa per qualcuno: tempo dell’ebreo. Mi ha molto colpita, rileggendolo, il modo in cui Otto Weininger in Sesso e carattere (1903) fa dell’ebreo l’esatto corrispondente del denaro: l’ebreo non ha nessuna specificità, nessun carattere particolare, è distaccato da tutto ciò con cui entra in contatto, ma al tempo stesso non esiste da solo. L’ebreo non conosce la solitudine, e allo stesso modo il denaro esiste solo nello scambio: è in quanto è sempre in contatto. L’ebreo è nomade, non riesce a radicarsi da nessuna parte: proprio come il denaro, che non è ancorato a niente, bene mobile per definizione. L’ebreo non ha forma – scrive Weininger -, non ha personalità: come il denaro, la cui essenza (se ne possiede una) è proprio quella di non essere niente, di non essere niente in sé, niente al di fuori della fungibilità universale, del metro indifferente per tutti gli scambi, del mezzo perché gli scambi possano universalmente aver luogo.
Tempo del denaro significa dunque un’analisi del capitalismo, dell’industrialismo dispiegato, della società di massa, della politica come professione, della politica di massa, svolta senza gli strumenti forniti da un altro analista di quella realtà: Marx. Si tratta di una riflessione che viene eseguita senza l’analisi marxiana della produzione di beni, della circolazione di beni, degli scambi, della creazione del valore e del plusvalore, quell’analisi che attinge all’economia politica gli strumenti che la rendono “scientifica” (come Marx ed Engels affermano) rispetto a posizioni “utopistiche”.

E’ di quegli anni, e precisamente del 1903, Filosofia del denaro di Georg Simmel: un testo che vuole restare al di qua e al di là dell’economia politica, che non contiene nemmeno un rigo di economia politica. Eppure, parla del denaro, dello scambio, del valore, dell’utilità, della scarsità, dei beni, delle merci, del mercato: temi classici dell’economia politica. Simmel, invece, scrive una filosofia del denaro. Questo rifiuto accomuna l’opera di Simmel a quella di Péguy: Péguy non vuole avere niente a che fare con l’economia politica, né con l’economia, e neppure con la politica dei politici.
Eppure l’interpretazione, il disegno - si direbbe con termine forse più appropriato - che Simmel offre in Filosofia del denaro e altrove (ma in quest’opera in modo grandioso) della vita nervosa, smarrita, perduta, della metropoli nell’epoca dell’accelerazione, della tecnica, delle merci tutte uguali, è qualcosa che ci parla da vicino, è un’immagine del tempo del denaro che resta, che dice qualcosa di essenziale su quel tempo.

Eppure, l’invettiva di Péguy contro il denaro ci restituisce del tempo del denaro un’immagine vera e palpabile, un’immagine non banale, non lineare, non schiacciata sull’antimodernismo reazionario con cui spesso è stata identificata. In entrambi i casi, si ha l’impressione che questo accada non nonostante il fatto che gli autori ignorino deliberatamente l’economia politica, le discipline che studiano scientificamente il denaro, la politica, ma grazie a questa volontaria ignoranza. Per Péguy non si tratta solo del fatto che le discipline scientifiche che prendono in esame il denaro lo porterebbero ad avere una conoscenza del funzionamento di quegli oggetti dall’interno, e che tale conoscenza non gli interessa: crede che il significato del denaro si possa comprendere solo dal di fuori e perfino contro l’economia e le discipline scientifiche, crede che il significato della politica si possa cogliere solo dal di fuori e contro la politica dei politici. Péguy è più vicino a Simmel che non a Marx e ai marxisti: e lo è esattamente per la sua concezione del denaro come cifra, come rappresentazione sensibile, semplice, unitaria, della modernità. Péguy, per parte sua, è vicino a un socialismo certamente non marxista, non collettivista, più sindacalista che politico, più antiborghese che anticapitalista, in consonanza piuttosto con la democrazia industriale evocata da Proudhon e con un cristianesimo degli esclusi.

Abbiamo detto che il socialismo di Péguy è antiborghese. Tempo del denaro, infatti, significa anche tempo della borghesia, dello spirito borghese, della borghesia come mentalità, al modo in cui in quegli stessi anni Léon Bloy la ritrae in forma crudele ed efficace nell’Esegesi dei luoghi comuni. La borghesia alla quale si fa riferimento è la borghesia stigmatizzata da Georges Sorel come quella che ha inglobato ormai completamente gli operai nella sua ideologia del progresso, del miglioramento graduale, della pace, della non-violenza, della conservazione. E’ Il borghese di Werner Sombart che ha creato il capitalismo: il borghese che è ebreo, che fa generare il denaro dal denaro, che trasforma tutto ciò che tocca in oro.

Non è davvero un caso che avvenga proprio nel “Cercle Proudhon” il contatto fra Péguy e Sorel, fra Péguy e Charles Maurras, fra Péguy e Georges Valois. Né è un caso che l’incontro avvenga sotto il segno di una critica non-scientifica al capitalismo, al tempo del denaro. Péguy è con questi autori, ma è anche contro di loro. Per lui non esiste l’ebreo, il tipo dell’ebreo, come accade invece per Edouard Drumont, per Weininger, per gli antisemiti: per Péguy esistono i differenti ebrei, diversi fra loro, gli ebrei ricchi e gli ebrei poveri, ed è solo con i poveri che egli si ritrova. Gli ebrei ricchi sono quelli integrati nel potere, i borghesi. Per Péguy non si deve tornare indietro, alla vecchia Francia, al Medioevo, al cattolicesimo medievale, come invece afferma esplicitamente Bloy, anche se – come lui – vede la bruttezza del tempo del denaro e sente tutto il richiamo di quel mondo passato. Per Péguy è necessario pensare al futuro, ai propri figli: bisogna essere nel tempo del denaro ma senza essere sciupati dal denaro. Bisogna che il popolo non si imborghesisca – come per Sorel, come per Bloy -, ma, a differenza che per loro, è necessario essere nel mondo dei borghesi.

Per Péguy, così come per il Drumont de La France juive (1886), il tempo presente è triste, spento, tetro, interessato, livoroso, povero nell’abbondanza: è il tempo della nevrosi, nevrosi che l’ebreo ha trasmesso alla modernità - afferma Drumont (ma non afferma Péguy). Per Péguy non esiste il capitale, ma il denaro, come per tutti gli altri autori ricordati. Su questo punto si ritrova con loro, da Simmel a Weininger. Per Péguy non esistono gli operai, ma i poveri: e su questo punto si ritrova con Bloy. Per Péguy non esistono i socialisti in generale, ma i socialisti francesi, i socialisti tedeschi, e via via gli altri, nazione per nazione. Per Péguy non esiste la borghesia come classe, ma come condizione dello spirito: e su questo punto si ritrova con Sorel, con Bloy, con Weininger, con Sombart.

Per Péguy la modernità è il denaro: oggettivo e spersonalizzante, esclusivamente relazione, potente e debole, tutto e niente allo stesso tempo, staccato dal lavoro, separato dalla terra, divenuto inquieto e agitato, sradicato. Sradicato come l’ebreo – osserverà qualcuno, ma non Péguy. Il denaro domina ogni altra cosa, e così ingabbia l’uomo moderno, come scriverà Max Weber, in una gabbia d’acciaio. E’ la parte più bassa degli interessi e degli appetiti quella soddisfatta nell’epoca moderna. Per Péguy il lavoro, l’economia, nell’epoca moderna, nell’epoca della borghesia e della politica, diventa volgare materialismo, dominio del basso sull’alto, predominio del momento economico dell’esistenza.
Tutto questo forma una tradizione, uno stile di pensiero, molto consistente, influente, importante e duraturo, che attraversa il Novecento e con il quale ancora avviene di confrontarsi. Non riesco a leggere in altro modo, ad esempio, le riflessioni degli antiutilitaristi alla Alain Caillé che contrappongono il dono allo scambio, oppure la lettura che Zygmunt Bauman offre della nostra modernità estrema o postmodernità.

Ma Péguy, proprio come Simmel, non rifiuta o accetta in modo lineare la modernità, anche se la sua definizione della modernità è quanto di più duro si possa scrivere contro di essa. Péguy non liquida la modernità, il tempo della scienza, del progresso, della borghesia, del denaro, della accelerazione, del calcolo, della quantità: ne vede tutti i profondi limiti, ma ne indica anche al tempo stesso la necessità, la funzione, la ragion d’essere. Questo mi pare detto meglio che altrove nelle pagine finali de L’argent. Suite (1913): dapprima, non si capisce in modo quanto ironico e quanto serio, Péguy afferma che la nostra epoca non è epoca di nani, non è da meno delle altre, per poi scrivere: “E’ vero che dall’inizio del mondo, il mondo moderno è il più contrario che esista, alle regole della Salvezza. Ma per una di quelle meravigliose compensazioni che stupiscono solo i devoti, nello stesso momento in cui il mondo moderno si formava come il sistema più contrario che si potesse dare alle regole della salvezza, le forme medesime del mondo moderno – intendo dire le sue forme fisiologiche e, per così dire, il suo stampo – diventavano la regola stessa della salvezza. Vengono richieste delle discipline: eccone una. Mai un mondo era insorto, fino a questo punto, contro le regole volontarie della salvezza. E mai un mondo era stato così strettamente posto nei limiti di queste stesse regole involontarie. Tutto quello che si era dovuto inventare in altri tempi, oggi ci è dato come la forma stessa in cui siamo costretti a muoverci.”

Qui stanno, mi pare, la grandezza non minimizzabile di Péguy e la sua originalità, la sua idea secondo la quale gli eroi, i santi, i poveri, mostrano la miseria del mondo moderno ma al tempo stesso devono stare nel mondo moderno per poter essere eroi, santi, poveri.

13 luglio 2009

Liberale/illiberale


Piero Ostellino è uno dei giornalisti che più apprezziamo. Dal 1970 è giornalista del "Corriere della Sera" del quale è stato anche direttore nel periodo 1984-1987. Dal 1973 al 1978 è stato corrispondente da Mosca, e ha raccolto i risultati di questo lavoro nel volume "Vivere in Russia" (Premio Campione d'Italia 1978). Attualmente è uno degli editorialisti del quotidiano.
È stato quindi fino al 1980 corrispondente da Pechino e, per i suoi servizi, ha ricevuto il Premio Saint-Vincent.
È anche membro del comitato scientifico di Società Libera, aggregazione fondata da esponenti del mondo accademico ed imprenditoriale.
Nei giorni scorsi sul Corriere nella rubrica "Il dubbio", ha scritto due importanti commenti all'iniziativa di Di Pietro di pubblicare sull'Herald Tribune un appello dal titolo "Italia democrazia a rischio". Normalmente sul blog non riportiamo commenti politici direttamente riferiti ai partiti ma questo ci pare molto, molto importante perchè, al di là della politica in senso stretto, ci pare che la questione del "metodo" sia molto molto importante.

Ecco dunque il primo articolo:


Di Pietro e l'appello sui giornali stranieri
UNA STRANA IDEA DI DEMOCRAZIA

Se non è un tentativo di indurre Paesi terzi a interferire nella nostra politica interna, è una manifestazione di sfiducia nelle istituzioni repubblicane alle quali, come parlamentare, ha giurato fedeltà. Non ci sono altre parole per definire l' «appello» di Di Pietro alla «Comunità internazionale» - pubblicato a pagamento sull' Herald Tribune - affinché eserciti «la necessaria pressione per assicurare che i principi della libertà democratica e di indipendenza della Corte costituzionale siano sostenuti al fine di impedire che la democrazia in Italia si trasformi in una dittatura di fatto». L' oggetto della surreale iniziativa è il disegno di legge governativo detto lodo Alfano, oggi legge, che, come ogni altra legge della Repubblica, doveva essere votata dal Parlamento; controfirmata dal presidente della Repubblica, che, prima di promulgarla, se vi ravvisava un vizio di forma, poteva «con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione» (articolo 74 della Costituzione); infine, in quanto controversa, deve, ora, essere sottoposta al giudizio della Corte costituzionale che ne può dichiarare «l' illegittimità costituzionale», facendola decadere «dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» (articoli 134 e 136). Il percorso della legge Alfano è, comunque, un esempio di democrazia costituzionale ancora più prescrittiva di quella di altri Paesi non meno democratici: divisione, separazione, indipendenza dei poteri esecutivo, legislativo, giudiziario (incarnato dalla Corte costituzionale), cui la nostra Costituzione aggiunge le prerogative del presidente della Repubblica. Già approvata dal Parlamento e contro-firmata dal presidente, sarà giudicata, il 6 ottobre, dalla Corte costituzionale. Che, poi, come scrive Di Pietro nel suo appello, «secondo il pronunciamento di oltre 100 costituzionalisti, la legge Alfano sia stata definita incostituzionale perché viola l' articolo 3 della Costituzione italiana secondo il quale "tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge"», è un' opinione legittima quanto quella contraria, rientra nel fisiologico dibattito politico democratico, ma non fa, evidentemente, testo. Antonio Di Pietro, come laureato in legge, ex magistrato, parlamentare, tutto ciò lo dovrebbe sapere. Se con l' «appello alla comunità internazionale» egli mostra di ignorarlo, vuol dire non solo che non sa che cosa sia la democrazia liberale, non solo che non crede che l' Italia lo sia, ma che ha un' idea della democrazia alquanto inquietante. Qui, la situazione giudiziaria di Silvio Berlusconi non c' entra. Siamo di fronte a un parlamentare che delegittima - oltre che una maggioranza di governo liberamente eletta, la qual cosa rimane ancora nei limiti del confronto politico - anche il Parlamento, il presidente della Repubblica e dubita persino della legittimità della Corte costituzionale, che potrebbe nei prossimi mesi respingere, senza scandalo, il lodo Alfano. Uno spirito, quello di Di Pietro, autoritario che mal sopporta, oggi, di fare politica dentro il perimetro costituzionale, e che così facendo getta anche qualche ombra sul suo passato di magistrato. postellino@corriere.it
Ostellino Piero
Pagina 1 - 10 luglio 2009

E questo è il secondo:

L'ILLIBERALE VOCAZIONE A CHIEDERE LE DIMISSIONI
Demagogia nella posizione di Di Pietro contro i giudici costituzionali

Alcuni lettori mi accusano di essere «berlusconiano» perché ho criticato la richiesta di Antonio Di Pietro, cui si è accodato il Partito democratico, di dimissioni del giudice della Corte costituzionale che ha invitato a cena Silvio Berlusconi e di quello che vi ha partecipato. Non sono berlusconiano, ma non me la prendo per l' accusa (soprattutto) perché non penso che «berlusconiano» sia una brutta parola, o che chi lo è sia un cretino o un mascalzone, così come non lo sia chi appartiene a altro schieramento. Troppi si credono democratici solo per aver messo metaforicamente una appartenenza «progressista» sulla camicia nera che continuano, di fatto, a portare sotto. «I quindici giudici della Corte costituzionale sono nominati per un terzo dal presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrativa» (articolo 135 della Costituzione italiana). Che piaccia o no - «è la democrazia, bellezza» - hanno un orientamento che riflette non solo quello di chi li ha nominati, ma anche, come ogni uomo, dello schieramento politico, o dell' indirizzo culturale, cui sono vicini. Come votino lo si sa, a prescindere dalle cene. Non mi pare neppure scandaloso che le opposizioni facciano il loro mestiere, fingendo una difesa della separazione dei poteri cui non credono; ma per indurre i due a astenersi sul Lodo Alfano e far prevalere chi lo vuole dichiarare anti-costituzionale: «è la politica, bellezza». Scandaloso, se mai, è che nessuna forza politica - neppure quella che si dice liberale - abbia mai proposto sia resa pubblica la dissenting opinion dei giudici che non si identificano in una sentenza approvata a maggioranza; che la nostra Corte costituzionale continui a funzionare come il Politburo sovietico, sulla base del principio leninista del «centralismo democratico» che demonizza le minoranze. Se proprio la si volesse mettere giù dura, si potrebbe dire, allora, che la richiesta di dimissioni è un espediente demagogico dell' Italia dei valori e del Partito democratico a uso di chi porta il cervello all' ammasso di un certo moralismo d' accatto e poi mi scrive «indignato» perché io tale la trovo. Concludo, per dirla col filosofo, che essa non è un' imposizione «alla libertà di volere» dei due giudici (di partecipare alla votazione), ma alla loro «libertà di giudizio» (di votare come credono); che - almeno per quanto riguarda Antonio Di Pietro - rivela, sì, una vocazione illiberale, ma non di ieri, e sulla quale sarebbe, del resto, difficile nutrire dubbi.postellino@corriere.it
Ostellino Piero
Pagina 43 - 11 luglio 2009.

Ma l'America sa sempre correggersi.


Su "La Stampa" di oggi.

Dopo Guantanamo e il Patriot Act (con le gravi limitazioni dei diritti civili che conteneva), siamo arrivati a una sorta di Special Branch della Cia, che di fatto rispondeva solo a Dick Cheney.
Cheney, il vicepresidente di George W. Bush, da molti ritenuto il vero falco dell’amministrazione, l’uomo di più alto grado e di maggiore autonomia fra i tanti sensibili alle tesi neocon, il più risoluto all’indomani dell’11 settembre, secondo l’allora «zar» della sicurezza Dick Clarke, a indicare in Saddam Hussein il mandante degli attentati newyorchesi, avrebbe avuto a disposizione una Cia tutta sua. O quantomeno sarebbe stato l’unico destinatario di una serie di rapporti riservati, arrogandosi un potere di veto sulle informazioni disponibili per il Congresso che la Costituzione degli Stati Uniti non gli riservava in alcun modo.
A mettere insieme tutto questo, la prima riflessione che sovviene è semplice: ci è andata ancora bene. Ci è andata ancora bene che, a fronte di così tante e sistematiche violazioni dei principi e della prassi costituzionale degli Stati Uniti, il sistema nel suo complesso abbia retto. Abbia retto al punto da consentire l’elezione di un presidente ben diverso, come Barack Obama, il cui avvento alla Casa Bianca appare sempre più come provvidenziale. Più laicamente, si potrebbe osservare che i sistemi costituzionali ben congegnati, esattamente come le barche ben disegnate, riescono ad autocorreggere, perlomeno entro certi limiti, gli sbandamenti, gli scarrocci e lo scadere della rotta. Mai come in questi mesi è apparsa centrale la misura che vieta a un presidente di restare in carica per più di due mandati. Per tutte le volte che questa norma, introdotta dopo l’eterna presidenza di Franklin Delano Roosevelt, è stata maledetta in America e altrove, per lo spreco di talento che essa comporta (si pensi a Reagan o a Clinton), è proprio in momenti come questo che occorre renderle omaggio. Perché il fatto che il Commander in chief, dopo al massimo otto anni, torni a essere un Mr. Smith qualunque può darsi che non sia sufficiente a ricordare a ogni funzionario che la sua prima lealtà consista nel servire la legge. Ma di sicuro rende molto probabile che, allo scadere del periodo, le magagne saltino fuori.
Staremo a vedere, nelle prossime settimane, che cos’altro emergerà su questa brutta vicenda. E tutti speriamo che non finisca «buttata in politica», ma che invece venga fatta luce con fermezza e imparzialità. Al di là della constatazione che le cose potevano andare peggio di quanto si sia verificato, si rafforza il dubbio che le procedure per reagire a uno stato di gravissima emergenza come quello scaturito dall’11 settembre debbano essere riviste. Tornano a suonare profetiche le parole di Bruce Ackerman, professore di diritto e scienza politica a Yale, che in un gran bel lavoro di tre anni fa (Prima del prossimo attacco) proponeva il varo di una «Costituzione d’emergenza», che permettesse sì al governo federale di «intraprendere azioni eccezionali per contrastare il rischio di nuovi attacchi», ma allo stesso tempo «impedisse l’adozione di misure permanenti» a detrimento delle liberta civili. Ackerman sosteneva che l’adozione alla luce del sole di misure eccezionali, sottoposte a una serie di scrutini da parte del Congresso a tempi predeterminati e improrogabili, e con quorum di maggioranza sempre più elevati, fosse di gran lunga preferibile alla forzatura interpretativa delle norme esistenti da parte di Corti e apparati esecutivi o dell’introduzione a titolo definitivo di norme eccessivamente restrittive della libertà. Questa volta ci è andata bene, appunto. Ma la prossima?
di Vittorio Emanuele Parsi

12 luglio 2009

Grande musica continua...

Continuiamo il ricordo di Michel Petrucciani con un'altra parte live all'Umbria jazz del 1996, in un "pezzo" formidabile: "In a sentimental mood" di "sir Duke" Ellington.

10 luglio 2009

Contro l'impostura climatica e i suoi araldi.


Carlo Ripa di Meana, già commissario Ue all'ambiente, legge "Pianeta blu, non verde" di Vaclav Klaus. E si scopre d'accordo. Tratto da "Il Foglio" dell'8 luglio sc.

Non credo al riscaldamento globale causato dall’uomo e dunque alla origine antropica dell’effetto serra. Non credo, pertanto, alla teoria che ne discende messa a punto negli ultimi anni dall’IPCC, l’International Panel on Climate Change (ONU): il cambiamento climatico andrebbe stabilizzato, secondo l’IPCC, riducendo e governando i gas a effetto serra nell’atmosfera, e, come prima misura, stivando nelle miniere dismesse il surplus di CO2 prodotto in questi anni.

Il clima è sempre in cambiamento. Pretendere di determinarlo è un atteggiamento prometeico. La sua evoluzione dipende da molti fattori: certo anche dalla composizione chimica dell’atmosfera, ma egualmente dalla dinamica delle grandi masse oceaniche, dai campi magnetici prodotti dal “vento solare”, dalla traiettoria che la terra percorre nella galassia, solo per ricordarne alcuni. Credo di avere in questi lunghi anni, dall’inizio dei Novanta, quando lanciai come Commissario europeo all’Ambiente la prima proposta di Carbon Tax, studiato, letto e verificato molto a proposito delle energie rinnovabili e della teoria del global warming, così come è stata formulata, dibattuta, sottoposta a verifica a partire dal 1997 con il Protocollo di Kyoto. Ho una diretta conoscenza a proposito di una delle energie rinnovabili, la più sovvenzionata e la più perniciosa per il paesaggio, irrilevante per la sua natura intermittente nella resa energetica: l’eolico industriale, il killer del paesaggio europeo e italiano in particolare. Come persona informata dei fatti sono del parere che si debba uscire dalla rassegnazione e dal fatalismo, e si debba iniziare a combattere una battaglia razionale contro le tesi autoritarie del controllo delle mutazioni climatiche che si propongono una spesa pubblica senza precedenti nella storia dell’umanità, immense risorse finanziarie per mitigare e programmare i cambiamenti climatici. Una operazione dirigistica, chimerica, dissennata contro cui, in particolare nel secondo semestre dell’anno di grazia 2009, ogni persona che non sia decisa a capitolare all’irrazionale deve condurre e portare a vittoria.

Margherita d’Amico, la scrittrice e giornalista cha ha lanciato il movimento “Il respiro degli alberi”, a fine mattinata di una giornata del giugno scorso fresca, quasi frizzante, mi dice: “Dobbiamo fare qualcosa di concreto perché il riscaldamento del clima è molto preoccupante”. Quando Margherita mi ha chiamato stavo leggendo Eco logo, un volume ben documentato del mio amico Stefano Apuzzo che nella sua introduzione alle quasi trecento pagine del libro scrive: “Stiamo parlando del destino che potrebbe farci assistere da anziani (lui ha 48 anni) alle inondazioni delle nostre città causate dallo scioglimento dei ghiacciai e dall’innalzamento dei mari. I due gradi di aumento della temperatura globale previsti da quasi tutti gli scienziati del clima produrrebbero l’inondazione di Venezia, del centro di Londra, di Miami e Manhattan, con tutte le coste mediterranee ridotte a deserti aridi.

L’acqua potabile diminuirebbe del 20-30 per cento, la resa agricola si abbatterebbe del 10 per cento, avremmo sessanta milioni di nuovi casi di malaria in Africa, le alluvioni lungo le coste interesserebbero dieci milioni di persone in più, il ghiaccio della Groenlandia si scioglierebbe definitivamente”. Due pareri di persone che conosco, non ingenue, spesso scettiche, sempre concrete, eppure inserite, Margherita e Stefano, nel grande coro dell’Apocalisse prossima ventura. Intonato con la solennità del canto gregoriano dai grandi cavalieri e diaconi, il già Vicepresidente americano Al Gore, Nobel e Oscar, l’erede al trono Carlo d’Inghilterra e, affidato poi alla divulgazione autorevole per gli incliti, dalle voci dei tenori Lester Brown, Jeremy Rifkin (1), Nicholas Stern, Maurice Strong, Klaus Töpfer. Per i lavori duri e sporchi alle voci fonde, quella intollerante del Ministro per l’Ambiente del Regno Unito Edward Miliband e quella protonazista del giornalista britannico George Monbiot (2), per intimidire gli incolti con il completamento, per le finiture minacciose, dei gruppi di baritoni, contralti e soprani, tutti intenti a seminare il panico isterico.

“È una questione morale, che riguarda la sopravvivenza della civiltà umana [... ] la crisi climatica può essere risolta in tempo per evitare la catastrofe [... ]”, Al Gore, ottobre 2008; “In base alle ultime relazioni il livello del mare potrebbe aumentare di un metro in questo secolo con gravi conseguenze per 600milioni di persone.

Paesi come l’Egitto e l’India ne subirebbero enormi conseguenze, mentre le isole più piccole scomparirebbero del tutto. Ci rimangono al momento solo novantanove mesi prima di raggiungere il punto di non ritorno, e questo tempo passerà in un lampo”, Carlo d’Inghilterra, Roma, Montecitorio, 27 aprile 2009; “Come i terroristi non possono presentarsi nei media, così gli scettici sulla questione climatica non dovrebbero avere il diritto di parlare pubblicamente contro la teoria del riscaldamento globale”, Edward Miliband, Pianeta blu non verde, Vaclav Klaus, p. 18. IBL Libri, Torino 2009; “Ogni volta che qualcuno muore in seguito alle alluvioni in Bangladesh, un dirigente di una compagnia aerea dovrebbe essere trascinato fuori dal suo ufficio e annegato”, George Monbiot, The Guardian, 31. 10. 2006.

Dunque l’attacco mediatico, istituzionale e politico per forzare la mano in luglio al G8 a l’Aquila, e in dicembre a Copenaghen alla grande Conferenza ONU per rinegoziare da cima a fondo il Protocollo di Kyoto, clamorosamente fallito con i relativi impegni, è nel suo pieno. Il nuovo Presidente Obama prepara l’affondo. Impegnato ad assumere nel mondo la guida della rivoluzione verde, dopo la lunga retroguardia americana rappresentata dai Presidenti Carter, Reagan, Clinton e i due Bush. Obama considera che questo del 2009, anno d’inizio della sua presidenza, sia il tempo ideale perché questa linea strategica maggiore, formatasi negli anni Ottanta e Novanta fino alla metà di questo decennio con allora la leadership dell’Unione europea, sia rimessa oggi alla primazia americana o, come hanno sognato Blair e Brown, in subordine, angloamericana. Questo proposito non lo ha mai taciuto Al Gore, e di recente lo ha teorizzato il premio Pulitzer Thomas L.

Friedman: “Io dico: l’America prenda la guida della rivoluzione verde e il mondo seguirà perché il suo potere di emulazione è ancora forte, ineguagliato. Se tentenniamo, gli altri tentennano, se avanziamo gli altri ci imitano. La Cina in particolare. Finora abbiamo tentennato. Ma se mostriamo che si può essere innovativi, ricchi e imprenditoriali anche colorando di verde la nostra economia questo varrà più di cento trattati [... ] Oggi è la corsa alla terra, e la vincerà chi inventerà per primo le tecnologie più verdi, perché uomini e donne possano continuare a vivere sul pianeta”, (Corriere della Sera, 15 giugno 2009). È stata una lunga marcia quella della teoria del global warming attribuito, come premessa di ogni cosa, all’aumento delle emissioni di biossido di Carbonio (CO2) prodotte dall’uomo, il gas a effetto serra dovuto alla crescita del consumo di combustibili fossili, carbone, petrolio e gas naturali. Nelle intenzioni dichiarate della cultura ambientale americana “La Terza Rivoluzione industriale è l’obiettivo finale che porta il mondo fuori dalle vecchie energie basate sul carbonio e l’uranio verso un futuro sostenibile e non inquinante per la razza umana”, (Jeremy Rifkin, economista e scrittore, I libri di Gaia, Milano 2008, p. 25).

Obama lo ha annunciato, con la sua consueta retorica, nel giorno dell’insediamento alla Casa Bianca, il 19 gennaio 2009, con queste parole: “We will roll back the specter of a warming planet”, ”cacceremo lo spettro del riscaldamento globale, utilizzeremo il sole, i venti e il geotermico per assicurare il pieno alle nostre automobili, per far funzionare le nostre fabbriche. Costruiremo le strade e i ponti, le nuove reti elettriche con le linee digitali intelligenti che ci terranno insieme”. All this we can do. And all this we will do”.

Valutando oggi, sei mesi dopo, con freddo realismo, il progetto strategico di Obama, messo a punto con le regole della sempiterna special relationship con l’alleato britannico (Blair iniziò a tesserla con l’ultimo Bush verso la fine della sua presidenza, e oggi Brown con l’intesa angloamericana, con sullo sfondo la Merkel), perché in questi ultimi mesi è divenuto problematico? Esso poggiava su tre “verità indiscutibili” annunciate dagli araldi della green revolution, della green industry e del green employment, ipse dixit: 1) Il prezzo del greggio è in continuo aumento; 2) L’aumento esponenziale delle emissioni di anidride carbonica e altri gas in atmosfera prodotti dall’uomo con le industrie, il riscaldamento e il trasporto producono negativo e decisivo surplus di effetto serra; 3) Il riscaldamento globale che ne deriva produce a ritmi sempre più accelerati una sconvolgente e innegabile mutazione climatica, un climate change rovinoso. Sei mesi dopo, a metà 2009, queste certezze sono state, una dopo l’altra, contraddette, prima di tutto dai crudi dati economici e scientifici. Oggi esse appaiono imprudenti formulazioni manichee. Imprudenti e non confermate. Il prezzo del petrolio è dimezzato. È probabile che riprenda a salire a crisi economica superata, dunque in data incerta. L’effetto serra dovuto a un aumento di CO2 non si è avuto. Si è registrata, al contrario, con la grande crisi, una flessione di CO2 dovuta alla riduzione dei consumi. La ricerca degli studiosi del clima e della meteorologia non registra aumento della temperatura negli ultimi dieci anni, come sembra prepararsi a riconoscere lo stesso IPCC con il prossimo rapporto. Il Professor Guido Visconti, il climatologo italiano più ascoltato in sede IPCC ha ammesso il 28 marzo 2009 sul Corriere della Sera, p. 33, che “Il dato sull’aumento di temperatura globale è soggetto evidentemente a diversi errori. I dati sperimentali che si hanno a disposizione sono ancora troppo limitati per decidere sulla validità dei modelli”.

Infine, Il 30 marzo 2009 sul New York Times, centoquattordici scienziati di tutto il mondo (incluso tra gli altri il fisico italiano Antonino Zichichi), tra cui 13 Premi Nobel, hanno pubblicato un appello a Obama rispondendo con queste parole all’affermazione di qualche giorno prima dello stesso Presidente, “poche sfide che l’America e il mondo hanno di fronte sono più urgenti della lotta ai cambiamenti climatici. I dati scientifici sono indiscutibili e i fatti sono chiari”: “Con tutto il dovuto rispetto signor Presidente, questo non è vero”, hanno risposto i 114 scienziati sul NYT.

Ormai da ogni parte giungono smentite al dogma del riscaldamento globale dovuto alle attività umane (tra i massimi oppositori Fred Singer, James Lovelock, Richard Lindzen, Hendrik Tennekes, Freeman Dyson, Patrick J.

Michaels, Antonino Zichichi, Bjorn Lomborg, Robert Mendelson, Franco Battaglia). Insomma, un fortissimo appello si leva da molte parti perché ci si impegni a “conoscere prima di deliberare”. Con un crescendo di pareri e di prove che svelano l’impostura e che giungono ormai anche dall’esterno della comunità scientifica. Voci della cultura e della politica, ancora timide e sommesse alcune, da parte di uomini di stato europei: il Presidente della Repubblica Ceca Vaclav Klaus, Valéry Giscard d’Estaing, Helmut Schmidt e, da New Dehli, il Primo Ministro dell’India Manmohan Singh.

Su questi nuovi orientamenti, per ora ufficiosi, caratterizzati anche da una caduta verticale di condivisione delle priorità del problema del riscaldamento globale nelle opinioni pubbliche, a Washington, a Londra, a Berlino, a Bruxelles, praticamente ovunque, è probabile che all’ordine del giorno dei “lavori travolgenti” previsti dalla equipe di Obama e dalla maggioranza dell’Unione Europea, con alcune esitazioni, Repubblica Ceca, Polonia e Italia, al G8 all’Aquila e a Copenaghen a dicembre oltre ai tre pilastri scelti, energie rinnovabili; tecnologie di accumulazione; reti energetiche intelligenti – smart grid, si aggiunga, inaspettata per gli ingenui, la carta coperta della ripresa nucleare. Da parte americana, italiana, britannica, polacca, tedesca, svedese e francese, calata, sottovoce e guardando le rondini, con il pretesto di aggiornare i reattori, da Obama con l’annuncio di nuove quattro centrali, e rilanciata a Parigi da Sarkozy: “Ogni euro per le rinnovabili corrisponderà a un euro per più nucleare energetico”, e ripetutamente preannunciata dal Governo di Roma. Con il controcanto, in Italia, di Chicco Testa, procellaria sintomatica che vola radente sulle onde del mare in tempesta in ogni svolta testa-coda dei settori energetici ed ecologici italiani più spregiudicati.

Fin qui le novità, le nuove condizioni e gli imprevisti del dibattito. A seguire, il merito a proposito dei tre pilastri annunciati e le spese relative da parte dell’Unione Europea.

Il primo pilastro: le energie rinnovabili, solare, eolico, idroelettrico, geotermico, moto ondoso, le biomasse, sono tutte caratterizzate da una natura intermittente, sempre aleatoria, e sono oggi energie non stoccabili.

Il secondo pilastro: la tecnologia di accumulazione prevede l’idrogeno come combustibile della terza rivoluzione industriale, con però la consapevolezza che si è ancora lontani dall’idrogeno commerciale, stoccabile, a disposizione per la generazione elettrica e per i trasporti. Il terzo pilastro: le reti energetiche intelligenti, le smart grid, costituite da mini reti che permettono all’utenza privata, alle piccole, medie e grandi imprese di produrre localmente energia rinnovabile con contatori intelligenti composti da sensori e microchips, un potente software che permetta a tutta la rete di poter conoscere la quantità di energia utilizzata in qualunque momento, per subentrare, sopperire, integrare la diffusione dell’elettricità. Questi pilastri hanno già raggiunto nel 2007 nell’Unione europea una spesa record di novanta miliardi di euro, che è previsto raggiunga i 250 miliardi di euro entro il 2020. Mentre per la ricerca e l’economia dell’idrogeno l’Unione Europea ha già stanziato oltre 500 milioni di euro per realizzare celle combustibili e uso commerciale di energia all’idrogeno.

Comparando le previsioni di spesa che la Ue e gli Stati Uniti si preparano a esporre al G8 tra qualche giorno per tentare di far convergere decisioni finanziarie egualmente imponenti agli altri grandi attori, Cina, India, Brasile, Corea entro il 2020, per poi ribadirle solennemente nel mese di dicembre a Copenaghen alla grande Conferenza dell’ONU, misure finanziarie tutte traguardate sul 2020, troviamo l’Unione Europea con una riduzione di CO2 del 20 per cento, gli Stati Uniti con una riduzione del 17 per cento; per le fonti alternative l’Unione Europea con diciotto miliardi di euro all’anno, venticinque milioni di dollari gli Stati Uniti; per l’occupazione l’obiettivo entro il 2020 per l’Unione Europea è di due milioni e mezzo di posti di lavoro, e per gli Stati Uniti di cinque milioni di posti di lavoro.

Per la stessa data, per la modernizzazione della rete di trasmissione elettrica, la smart grid, la rete intelligente, gli Stati Uniti hanno annunciato trentadue miliardi di dollari più undici miliardi per la ricerca e lo sviluppo.

L’Unione europea non ha ancora definito la busta finanziaria per la super grid, e l’abbattimento dei vecchi elettrodotti. Solo in Italia la Terna dovrebbe rimuovere 1200 chilometri dei vecchi.

Nel settore delle rinnovabili sembra raggiunta tra Stati Uniti e il resto del mondo, un’intesa per una priorità per l’eolico, considerato tecnologia matura e reso competitivo con la produzione energetica da carbone, gas o petrolio, i combustibili fossili, dal prezzo politico al Kw/ora, che in Italia è tre volte superiore a quello riconosciuto allo stesso indice prodotto da gas, carbone o petrolio, e negli altri paesi è il doppio del Kw/ora. Dunque un “immenso sforzo finanziario con una energia pesantemente sovvenzionata in tutto il mondo, intermittente e in quasi tutte le realtà paesaggistiche disastrosa”, (Giuseppe Zollino, Convegno Il paesaggio sotto attacco. La questione eolica, Palermo 28 marzo 2009). Segue il solare, nella sua versione fotovoltaica, solare termica, solare termodinamica concentrata.

Nelle rinnovabili, inoltre, saranno previste, urbi et orbi, la geotermia, le biomasse, il moto delle maree, l’idroelettrico e i termovalorizzatori. È evidente che tutta questa lunga operazione è stata preparata da una decisione ideologico-politica prima. Da varie iniziative di vasta comunicazione dopo, in particolare quella visiva confezionata dal Vicepresidente americano con il suo film “Una scomoda verità”, forse il più potente propagandista dell’ideologia del riscaldamento climatico, poi dal Rapporto del Barone Nicholas Stern, scritto per ordine del Primo ministro britannico Tony Blair, “Un piano per salvare il pianeta”, che ha prodotto un panico diffuso sui cambiamenti climatici e le loro pretese conseguenze catastrofiche sul futuro della civiltà umana.

Il Rapporto Stern è in sostanza un esercizio di propaganda a sostegno della politica del Governo britannico per perseguire un ruolo di leadership mondiale, insieme agli Stati Uniti, in merito ai cambiamenti climatici (”Nessuna emergenza clima”, Nigel Lawson, già Cancelliere dello Scacchiere della Thatcher, Brioschi editore, Milano 2008). Alla base di questo panico non c’è, però, la scienza, se non nella sua versione burocratica, lautamente retribuita e numerica rappresentata dalle migliaia di burocrati e accademici, duemilacinquecento, raccolti dalle Nazioni Unite, su indicazioni dei rispettivi governi, nell’IPCC. Dunque, nella sua sostanza si tratta della forzatura della scienza da parte di una ideologia illiberale e orientata all’autoritarismo (”La verità scientifica non si determina tra l’altro contando le teste”, James Lovelock, Prospect, dicembre 2007, London). Non aveva torto lo scrittore Michael Crichton, parlando il 15 agosto 2003 a San Francisco al Commonwealth Club, nella sua memorabile requisitoria “Environmentalism as religion”, “Vero scontro tra verità e propaganda”. Tullio Regge conferma questa rapida deriva verso forme di misticismo in cui il simbolo conta più dei fatti: “La storia è ricca di predizioni fallaci che hanno rinfocolato fanatismi. Orde di guru, per cui la modestia non era una virtù, hanno predetto catastrofi che non si sono mai avverate”, (I falsi allarmismi, Piemme, Asti 2004). Ma forse la più efficace analisi e denuncia di questa manipolazione affidata alla comunicazione mediatica, tv, radio, video e giornali e riviste, l’ha sviluppata nel suo libro recente “Pianeta blu non verde – Cosa è in pericolo: il clima o la libertà?”, Vaclav Klaus attuale Presidente della Repubblica Ceca, tra i maggiori economisti viventi, che ci esorta a sfidare l’impostura “che non deve rimanere senza risposta da parte dell’opinione pubblica che ragiona razionalmente”. Tra le motivazioni aggiuntive segnalo anche quelle di carattere narrativo e involontariamente farsesco rappresentate da due cammei della propaganda catastrofista e apocalittica, “Gli orsi polari” e “Gli eschimesi”. Per i primi vale il servizio che gli dedicò Time nel 2006, “Be worried. Be very worried” (”Preoccupiamoci. Preoccupiamoci molto”), e in copertina vi era la fotografia di un orso polare su una piccola banchisa di ghiaccio galleggiante che cercava un’altra banchisa su cui saltare, mentre nel testo si leggeva che “gli orsi bianchi polari stanno iniziando ad annegare, e a un certo punto si estingueranno”. Mondadori nel 2009 ha riportato nel libro “Stiamo freschi”, di Bjørn Lomborg, questa asciutta dichiarazione dello scienziato, autore del grande best seller “L’ambientalista scettico”, sempre della Mondadori: “Per la Groenlandia, che fa parte della Danimarca, il mio paese, sono un simbolo di orgoglio, e la loro perdita sarebbe una tragedia. Ma la popolazione globale di orsi polari nell’Artico è cresciuta dai 5000 degli anni sessanta ai 25000 degli inizi di questo decennio, con le loro popolazioni in aumento”. Mentre ancora più autoironica la considerazione del focus “Cambia il clima, aumentano le malattie”, (Corriere della Sera 15 giugno 2009), che così conclude la sua inchiesta: “Fra gli eschimesi dell’Alaska sono aumentati incidenti, cadute, fratture alle gambe, dovuti al ghiaccio troppo sottile. I ghiacciai si stanno davvero sciogliendo sotto i nostri piedi”. The laugh of the new century.

Eppure il grande spin mediatico del global warming antropico non ha evidentemente memoria di tre precedenti analoghi, tre brevi ere di irrazionalità: la dannazione del Ddt quando Rachel Carson, con Silent Spring, la primavera silenziosa, nel 1962, nel dopoguerra, ferì a morte il Ddt, il pesticida che aveva estirpato la malaria, e fu bandito nel paese dove era stato inventato, prodotto e diffuso, con la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti. Il Ddt fu via via eliminato in tutto il resto del mondo. Avendo il merito, per la pressione della opinione pubblica americana, è vero, di creare in conseguenza l’EPA-Environmental Protection Agency, la prima agenzia di protezione ambientale al mondo, riducendo, alcuni rischi ma riaprendo con il bando totale i grandi continenti dell’Asia e dell’Africa alla anofele, la zanzara portatrice delle febbri malariche.

Seguito, il caso Ddt dal caso di Paul Ralph Ehrlich, con il suo libro del 1968 “The Population Bomb”, con cui annunciava che “negli anni settanta e ottanta centinaia di milioni di esseri umani moriranno di fame nonostante programmi di emergenza e di salvezza che verranno avviati da subito”, così auspicando come prevenzione una severissima politica di controllo delle nascite in ogni continente. Le previsione di Paul Ehrlich si rivelarono completamente sbagliate e le sue teorie di pianificazione demografica furono travolte dalla constatazione che muovevano da modelli matematici errati.

Donella Meadows, che fu una ricercatrice e produsse il modello matematico su computer “World3” per il Club di Roma guidato da Aurelio Peccei, fornì in tal modo la base conoscitiva di un altro libro celeberrimo “Limits to growth – I limiti dello sviluppo”, che alla luce dei decenni trascorsi risulta per lo più sbagliato nella previsione sulle quantità e sulle durate delle risorse minerarie ed energetiche del pianeta, a cominciare dal petrolio.

Producendo, in tal modo, una ondata di diffusa di incredulità nei confronti di ricerche analoghe.

Dimenticando questi precedenti, che pure dovrebbero tornare alla memoria degli attuali zeloti del riscaldamento globale antropico, la maggioranza dei governi e dei leader politici sembra decisa ad avventurarsi, costi quel che costi, e mai modo di dire fu più calzante, sulla via degli impegni a proposito di un non problema, come Fred Singer, fisico dell’atmosfera dell’Università della Virginia, così riassume: “Perché dovremmo dedicare le nostre scarse risorse a quello che in sostanza è un non problema e ignorare le problematiche reali che il mondo si trova davanti, fame, malattie, negazione dei diritti umani, per non parlare delle minacce del terrorismo e delle guerre nucleari?”.

A distanza di pochi giorni, quando al tavolo dei G8 si potrà misurare, insieme, la parte autentica e determinata della “rivoluzione verde”, con tutte le sue pulsioni chimeriche e le sue inaccettabili imprudenze, e la obbligatoria quota parte di “fiori per il loggione”, con le inevitabili tirate retoriche che, serviranno solo a contrabbandare una diffusa ma pudica, anzi virginale, ripresa del nucleare, sotto il pretesto del riaggiornamento degli impianti con le nuove tecnologie esistenti, le dichiarazioni ufficiali che fioccano dalle sedi delle Istituzioni europee sono a dir poco velleitarie. Nel giro di ventiquattr’ore il Corriere della Sera, mai come prima impegnato a tirare la volata alla causa del riscaldamento globale, il 29 giugno ha ospitato, tra altri, i seguenti propositi del Vicepresidente dei Verdi al Parlamento europeo, Claude Turmes, che dopo aver ascoltato i resoconti dell’approvazione alla Camera dei rappresentanti con sette voti di scarto della prima legge di Obama sul clima, capolavoro del nulla, tra blandi impegni di riduzione, concepita con il ricorso illusionistico del cap and trade, un paralizzante sistema di compensazioni in fatto di emissioni di gas a effetto serra, erede peggiorativo della fallita formula degli swaps, un baratto tra industria virtuosa e industria inquinante, prova legislativa da cui il nuovo Presidente americano è uscito barcollante, l’onorevole Turmes così auspica il futuro “D. : Cina, India, o i Paesi africani chiederanno all’Occidente i soldi per ripulire i loro cieli. Sarà giusto darli? R. : “Si. Sarà morale. È una questione etica, oltre che ecologica. Noi abbiamo delle responsabilità storiche verso quei paesi che non erano ancora industrializzati trenta o quaranta anni fa. Abbiamo accumulato CO2 nei cieli per molti decenni, prima che iniziassero loro a farlo”.

Fa una certa impressione, lo confesso, leggere propositi e sogni di un Parlamentare europeo appena eletto che ricordano i libri di Henry Michaux, “Un barbaro in Asia”, per esempio, scritto sotto mescalina, il più potente degli allucinogeni naturali. E il giorno dopo, 30 giugno, a parlare è il ministro dell’Ambiente della Svezia, Andreas Carlgren, che nella presidenza dell’Unione assunta nelle stesse ore si propone di ottenere l’estensione della Carbon tax, oggi adottata in Danimarca, Finlandia e Slovenia, a tutti i paesi dell’Unione, possibilmente suggerendola al resto della Comunità internazionale, e preannunciando per il proprio paese un taglio del 40 per cento delle emissioni di gas a effetto serra. Omette però di dire al giornale italiano, il ministro svedese Carlgren, che alla produzione di energia elettrica nella Svezia, paese di otto milioni di abitanti con una superficie di 150 mila chilometri quadrati superiore a quella italiana, la rinnovabile tradizionale idroelettrica concorre a fornire il 60 per cento del fabbisogno elettrico. Buona parte del rimanente è coperto dal nucleare prodotto da dieci centrali atomiche che, con decisione dell’attuale governo di Stoccolma, nel marzo di quest’anno, sono state confermate e in parte già riaggiornate, con buona pace del Referendum popolare del 1980 che ne prevedeva la graduale chiusura con termine al 2010.

Mi limito a esprimere un pio desiderio: si inizi al G8, e si passi poi alla Conferenza ONU di dicembre, a discutere di tutte le questioni della mutazione climatica senza l’obbligo di sottostare ai dettami della correttezza politica di chi coltiva la pretesa di cambiare il clima ripristinando quello d’antan.

Bibliografia essenziale
Elenco qui di seguito i libri da consultare. Mi limito a dare i testi che considero importanti nelle edizioni italiane, e qualche riferimento a testi pubblicati altrove, ma egualmente indispensabili.
Stefano Apuzzo – Danilo Bonato, ECO LOGO, I libri di Gaia, Milano, 2008
Franco Battaglia – Renato Angelo Ricci, VERDI FUORI ROSSI DENTRO, Free Foundation for Research on European Economy, Milano, 2007
Tony Blair, SPEECH ON CLIMATE CHANGE, Londra, 14 settembre 2004
Jean-Louis Butré, L’IMPOSTURE, Editions du Toucan, Paris, 2008
Riccardo Cascioli – Antonio Gaspari – Tullio Regge, LE BUGIE DEGLI AMBIENTALISTI. I FALSI ALLARMISMI DEI MOVIMENTI ECOLOGISTI, Piemme, Asti, 2004
Michael Crichton, ENVIRONMENTALISM AS RELIGION, Commonwealth Club, San Francisco, 15 agosto 2003
Michael Crichton, THE CASE FOR SKEPTICISM ON GLOBAL WARMING, National Press Club, Washington DC, 25 gennaio 2005
Michael Crichton, STATO DI PAURA, Garzanti, Milano, 2005
Paul Ehrlich, THE POPULATION BOMB, Ballantine Books, New York, 1968
David L. Goodstein, IL MONDO IN RISERVA, Università Bocconi, Milano, 2008
Al Gore, LA TERRA IN BILICO, Roma-Bari, Laterza 1993
Al Gore, UNA SCOMODA VERITÀ: COME SALVARE LA TERRA DAL RISCALDAMENTO GLOBALE, Rizzoli, Milano, 2003
Vaclav Klaus, PIANETA BLU, NON VERDE. COSA È IN PERICOLO: IL CLIMA O LA LIBERTÀ?, IBL Libri, Torino, marzo 2009
Serge Latouche, L’OCCIDENTALIZZAZIONE DEL MONDO, Bollati Boringhieri, Torino, 1992
Nigel Lawson, NESSUNA EMERGENZA CLIMA. UNO SGUARDO FREDDO SUL RISCALDAMENTO GLOBALE, Francesco Brioschi editore, Milano, 2008
Richard Lindzen, CLIMATE OF FEAR, The Wall Street Journal, New York, 12 aprile 2006
Bjørn Lomborg, L’AMBIENTALISTA SCETTICO, Mondadori, Milano, 2003
Bjørn Lomborg, STIAMO FRESCHI, Mondadori, Milano, 2008
James Lovelock, THE EARTH IS ABOUT TO CATCH A MORBID FEVER THAT MAY LAST AS LONG AS 100. 000 YEARS, The Indipendent, 16 gennaio 2006
Laura Marchetti, IL PENSIERO ALL’ARIA APERTA, Palomar, Bari, 2000
Donella Meadows – Dennis Meadows, I Limiti Dello Sviluppo, Mondadori, Milano, 1978
BARACK OBAMA’S PRESIDENTIAL ADDRESS, Shenker minibooks series, Roma, 2009
Maurizio Pallante, LA DECRESCITA FELICE, Editori Riuniti, Roma, 2008
Jeremy Rifkin, ECONOMIA ALL’IDROGENO, Mondadori, Milano, 2002
Jeremy Rifkin, IL SOGNO EUROPEO, Mondadori, Milano, 2004
Vandana Shiva, RITORNO ALLA TERRA, Fazi editore, Roma, 2009
Peter Staudenmaier, L’IDEOLOGIA FASCISTA: L’ALA VERDE DEL PARTITO NAZISTA E I SUOI ANTECEDENTI STORICI, AK Press, Oakland, 1995
Nicholas Stern, UN PIANO PER SALVARE IL PIANETA, Feltrinelli editore, Milano, aprile 2009
Chicco Testa, TORNARE AL NUCLEARE?, Einaudi, Torino, 2008

Non c’è scampo. Passeremo il tempo a chiedere perdono per i nostri errori.


Su "Tempi" del 9 luglio, questo ragionamento di Giorgio Israel.

Il Financial Times ha dedicato alla notizia la prima pagina. Il signor Nick Draper, avendo smesso di lavorare nella celebre banca d’affari JP Morgan ed essendosi dedicato all’attività di storico dell’economia, ha scoperto in un archivio londinese scottanti dossier concernenti la dinastia dei banchieri Rothschild e degli avvocati Freshfield.

In entrambi i casi i documenti proverebbero compromissioni con lo schiavismo avvenute quasi due secoli fa. Pare che un certo Lord James O’Bryen avesse chiesto un prestito ai Rothschild che avevano ottenuto in cambio un’ipoteca sulle sue proprietà in America inclusi gli 88 schiavi che vi lavoravano. Il Lord era insolvente e i Rothschild pretesero il dovuto inclusi gli schiavi: questo nel 1830 quando la schiavitù era stata appena dichiarata illegale nel Regno Unito. Anche l’avvocato James W. Freshfield avrebbe trattato un trasferimento di proprietà comprensive di decine di schiavi, ottenendo sontuose parcelle.

Lo scandalo sarebbe aggravato dal fatto che entrambe le dinastie hanno la fama di esponenti del capitalismo illuminato. Pertanto, come minimo dovrebbero porgere le loro umili scuse – difatti sia la banca Rothschild che lo studio Freshfield hanno promesso rigorose indagini – ma non sono escluse conseguenze economiche. Esistono precedenti: nel 2005 proprio la JP Morgan non soltanto dovette porgere le sue scuse perché nell’Ottocento due sue affiliate avevano acceso ipoteche sugli schiavi, ma per calmare gli animi istituì borse di studio per 5 milioni di dollari riservate a studenti afroamericani. Anche la banca Lehman Brothers (fallita durante la presente crisi) dovette scusarsi nel 2005 perché le società che appartenevano al gruppo si erano compromesse con lo schiavismo. La cenere sul capo è toccata anche a due università americane: la celeberrima Yale University, anch’essa un tempo implicata nello schiavismo, come documentato da alcuni suoi studenti, e la Brown University. È probabile che la lista si allungherà.

Non vi è bisogno di dire quale orrore provochi in noi lo schiavismo. Ma l’idea che ogni istituzione dell’occidente debba passare il suo futuro a scusarsi per ciò che hanno fatto i suoi predecessori è nauseabonda. Non solo perché è scioccamente moralistica ma perché è insopportabilmente ipocrita. Per essere coerenti bisognerebbe elevare un coro di scuse da assordare il mondo intero e bloccare ogni altra attività. Ma bisognerebbe farlo non solo in occidente: gli altri sono forse tutti angioletti? Non solo: bisognerebbe parlare dello schiavismo di oggi, che non c’è più in occidente bensì altrove. Talora è schiavismo di massa, sequestro di interi popoli che li tiene asserviti con la minaccia della morte o della tortura.

Ma di questo nessuno vuol parlare. Di che stupirsi se persino al vertice degli Stati Uniti è giunta l’espressione del politicamente corretto che passa il tempo a deplorare le colpe dell’occidente mentre si inchina reverente di fronte ai satrapi orientali che schiavizzano le donne?

E allora, visto che non c’è scampo, avanzo una proposta. Cominciamo con Aristotele. Nessuno può negare che fosse difensore del carattere naturale della schiavitù. Che tutti gli editori del mondo scarichino sulle pubbliche piazze i libri di Aristotele, che li si dia alle fiamme e si punisca per legge chi oserà in futuro leggere quei testi infami. Gli editori occidentali dovranno impegnarsi a pubblicare opere di schiavi di acclarata autenticità che prenderanno il posto di quelle di Aristotele nelle biblioteche. Questo tanto per cominciare. Poi faremo i conti con Platone. La lista è lunga e chi si è macchiato di colpe dovrà tremare.

Sempre a proposito di "schiavitù", ecco una scheda da "L'Almanacco del giorno".

Diffusa nella maggior parte del mondo antico, la schiavitù ha assunto forme diverse nel corso dei secoli e a seconda delle civiltà. Le condizioni degli schiavi variano notevolmente, ad esempio, da quelle durissime imposte dalla costituzione spartana a quelle relativamente migliori dell'impero romano, che prevedevano la possibilità di un riscatto.
In ogni caso, nell'antichità e per tutto il medioevo sono poche le voci che si levano contro la schiavitù come istituto sociale; la più autorevole quella di Aristotele, che tuttavia, quando si dilunga sull'argomento, nella Politica, non esprime una vera condanna, ma si limita a invocare un trattamento più umano.
E in effetti le condizioni degli schiavi migliorarono un po' ovunque nei secoli successivi, anche grazie alla diffusione del cristianesimo. La schiavitù, tuttavia, non venne mai abolita ma assunse forme diverse, come la servitù della gleba in epoca medioevale, per registrare un'impennata con l'espansione del mondo moderno. A partire dal XV secolo, infatti, e per tutti i tre secoli successivi, gli imperi coloniali resero necessarie grandi quantità di manodopera da adibire ai lavori più pesanti e ingrati. Con lo sviluppo delle grandi piantagioni nel Sudamerica, iniziò poi l'importazione massiccia di schiavi dall'Africa, la pagina più pesante e drammatica nella storia della schiavitù.
A parte alcuni casi sporadici, bisogna arrivare all'illuminismo perché la schiavitù venga contestata apertamente sia sul piano morale che su quello sociale e venga difeso il principio della libertà di ogni essere umano. Sull'onda di queste idee, il primo paese ad abolire per legge la schiavitù è la Francia rivoluzionaria, nel 1791, che tuttavia la ripristinò negli anni successivi.

E' comunque nella prima metà del XIX secolo che la maggior parte degli stati promulgano leggi contro la schiavitù e la tratta di schiavi, ultimi in ordine di tempo gli Stati Uniti, nel 1865, la Spagna nel 1870 e il Brasile nel 1888.
Il primo trattato internazionale che riguarda la schiavitù è la del 1926, promulgato dalla Società delle Nazioni e ripreso nella Dichiarazione dei diritti umani del 1948. [Articolo 4: "Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma."]
Questi i passi storici fondamentali. Finora si è parlato però di schiavitù in senso stretto, che contempla la proprietà dell'uomo su un altro uomo e da qui il diritto di decidere della sua vita. Ma nell'ultimo cinquantennio ricorrenti denunce provenienti da diverse fonti testimoniano che la schiavitù, lungi dall'essere scomparsa dal mondo contemporaneo, ha assunto altre forme, spesso più difficili da sradicare. Da qui la necessità di una seconda Convenzione, promulgata dall'Onu del 1956, che condanna anche tutte le pratiche affini allo schiavismo.
Da allora le denunce non sono cessate e si moltiplicano gli appelli dalle organizzazioni umanitarie perché si intervenga contro queste pratiche; spesso però le pressioni fatte sui singoli stati non risultano efficaci, dato che esistono degli osservatori ufficiali, ma non una vera commissione di controllo.

Lavoro coatto, vendita di donne, bambini e prigionieri di guerra, servitù della gleba sono le forme più diffuse, ma nelle forme assimilabili alla schiavitù secondo la convenzione del 1956, rientrano anche il prestito su pegno e l'usura - in quanto spesso conducono a un obbligo illimitato e sproporzionato alla natura del debito nei confronti del creditore - o la speculazione e il traffico su persone che vogliono emigrare dalla loro patria.
I soggetti più esposti sono da sempre quelli più deboli, quindi bambini, donne - i cui diritti non sono adeguatamente difesi in molti paesi -, minoranze etniche, popolazioni ridotte all'estrema povertà. Vere e proprie forme di schiavitù sopravvivono poi in alcuni paesi in guerra, dove i prigionieri vengono venduti e i civili costretti a lavorare come schiavi. Uno degli stati sotto accusa in questo senso è il Sudan, dove imperversa ormai da anni una guerra civile che ha sovvertito qualsiasi ordine legale. Ma altre accuse arrivano anche dalla Mauritania, mentre in altri paesi, come Algeria e Nigeria, sopravvive ancora l'usanza di costringere le donne al matrimonio o ridurle alla schiavitù sessuale.
In condizioni affini alla schiavitù vivono anche le donne obbligate alla prostituzione in tutto il sudest asiatico, uomini e donne costretti al lavoro coatto in Brasile, Burma, Repubblica Dominicana, Punjab, e infine i bambini che lavorano - spesso senza alcun compenso - nella fabbricazione dei tappeti, nelle fornaci per mattoni, nell'agricoltura o come domestici, in Pakistan, India e Bangladesh. La piaga del lavoro infantile, infatti, diffusa soprattutto nei paesi poveri, assume spesso i caratteri della schiavitù ed è associata a varie forme di violenza.

Gli organismi internazionali che si occupano di tutti questi problemi hanno una forte presenza sulla rete, di cui sfruttano le potenzialità interattive lanciando campagne e raccogliendo adesioni. A questi siti si aggiungono gli archivi storici, quelli che contengono i documenti ufficiali e quelli di molte associazioni religiose. Insomma, il materiale è tantissimo e vario. Ma anche qui, attenzione ai fanatici: c'è chi, partendo da una condanna della schiavitù, lancia una campagna contro l'aborto; e può capitare che, digitando "slavery" con alcuni motori di ricerca, ci si imbatta solo in siti a luci rosse.

09 luglio 2009

Consiglio a sinistra leggetevi il Papa


Così la giornalista Ritanna Armeni ha commentato su “Il Riformista” di ieri la “Caritas in veritate”.
La Armeni ha lavorato al Manifesto, a L'Unità, a Rinascita e per l'agenzia giornalistica Asca.
Ha collaborato con molti settimanali, tra i quali Il Mondo e Noi donne. E' stata portavoce di Fausto Bertinotti e responsabile dell'ufficio stampa di Rifondazione Comunista.
Opinionista sul quotidiano Liberazione, il suo impegno giornalistico è stato sempre rivolto ai temi politici, sociali e culturali. Ha condotto per anni in coppia con Giuliano Ferrara, il programma "Otto e Mezzo" su La 7.


Un consiglio a sinistra: leggere e sottolineare l'enciclica di Benedetto XVI "Caritas in veritate".
Poi fermarsi a riflettere su se stessi, su quello che i partiti di sinistra, di centrosinistra, laici e cattolici hanno detto e fatto negli ultimi anni sul lavoro e sui lavoratori. E, quindi, trarne le conclusioni.
Io l'ho fatto. La conclusione che ne ho tratto è molto semplice.
Caritas in veritate contiene molte idee e valori storicamente definiti di sinistra. E sui quali la sinistra farebbe bene a tornare.
E molte, molte idee che negli ultimi anni ha messo in soffitta, se non addirittura rinnegato.
Lo so bene. Le encicliche sociali sono sempre state attente ai mutamenti del mondo del lavoro e hanno espresso l'anima profondamente solidale di una istituzione antica e complessa come la Chiesa.
Alla fine dell'800 ha fatto scandalo quella "Rerum novarum" che chiedeva un salario giusto che permettesse il sostentamento dignitoso del lavoratore e della sua famiglia. Già nella "Quadragesimo anno" di Pio XI si descriveva un'economia «orribilmente dura, inesorabile, crudele». E in "Mater et Magistra" Giovanni XXIII definisce senza mezzi termini «ingiusto» un sistema economico che comprometta o sia di impedimento alla dignità umana. Anche nel caso - aggiungeva - che «la ricchezza in esso prodotta attinga quote elevate e venga distribuita secondo criteri di giustizia e di equità».
Ma proprio qui è il punto. Ancora una volta la dottrina sociale della Chiesa attraverso Benedetto XVI sceglie la radicalità della sua verità e non si fa incantare dalle sirene del pensiero dominante. Dalle sirene della globalizzazione, in questo caso, che con i loro canti hanno affascinato e incantato anche la sinistra. Nessuna confusione offusca il messaggio sociale della Chiesa che rimane fermo "in veritate", vede la situazione per quello che è e chiede che in essa sia immessa, cresca e si sviluppi la caritas, cioè l'amore, la solidarietà, il rispetto per l'uomo e per la donna.
E allora è vero - è, appunto, in veritate - che nel mondo globalizzato «la mobilità lavorativa, associata a una deregolamentazione generalizzata, è stata un fenomeno importante, non privo di aspetti positivi» ma la caritas, cioè l'attenzione agli uomini e alle donne fa vedere quanto «l'incertezza circa la condizioni di lavoro, in conseguenza dei processi di mobilità e di deregolamentazione» abbia portato a «forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell'esistenza, compreso quello verso il matrimonio. Conseguenza di ciò - dice l'enciclica - è il formarsi di situazioni di degrado umano, oltre che di spreco sociale».
Leggere, sottolineare e riflettere. Altro che precarietà buona e precarietà cattiva, altro che gli innumerevoli dibattiti sulla necessità che il mercato sia libero da lacci e laccioli e che i lavoratori rinuncino al mondo del lavoro fisso e siano felici nella nuove flessibilità . La caritas fa vedere il degrado, l'infelicità, lo spreco di energie, la mancanza di senso del lavoro nella globalizzazione. Sbaglio o a sinistra di questo si è parlato poco o niente? Sbaglio o ci si arresi alle regole del mercato ritenute inviolabili e necessarie anche quando toccavano pesantemente la vita delle persone? Sbaglio o ci si è limitati a proporre o a sostenere leggi che ordinavano l'esistente senza mai proporsi un cambiamento del degrado?
Per molti anni si è rinunciato alla caritas, non si è guardata alla verità con gli occhi dell'amore e della solidarietà. E questo ha impedito, ahimé, anche di guardare davvero la realtà. Quella dell'impresa, ad esempio, che oggi appare dominata «da una classe cosmopolita di manager che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi…». O al ruolo della Stato di cui «ragioni di saggezza e di prudenza - dice l'enciclica - suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la fine» - anzi, si aggiunge - «in relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere…».
Leggere e sottolineare. L'invito è anche per i sindacati. La luce della caritas, renderebbe chiaro che non minore, ma maggiore deve essere il ruolo delle organizzazioni sindacali che oggi appaiono chiuse nella difesa dei propri iscritti e invece dovrebbero volgere «lo sguardo anche verso i non iscritti, e, in particolare, verso i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo, dove i diritti sociali vengono spesso violati».
E sottolineare anche la parte sull'immigrazione. Per chiedersi a sinistra quanto si sia effettivamente combattuta la battaglia perché gli immigrati «non siano considerati una merce o una mera forza lavoro» e «non siano trattati come qualsiasi altro fattore di produzione». Quando la battaglia contro il decreto sicurezza si fa, come ha fatto gran parte della sinistra, non in nome della solidarietà, dell'amore e dell'accoglienza, ma in nome dell'efficacia di norme sulla sicurezza proposte dal governo è inevitabile la rinuncia alla caritas.
E soprattutto a sinistra si rifletta su quella parte dell'enciclica che propone «l'esperienza stupefacente del dono» perché il dono è il superamento se non il contrario del merito, parola tanto incantatrice quanto illusoria che usata per giustificare l'assenza in tante sue proposte della caritas.
Il dono è l'eccedenza, il gratuito, il di più, quello che non è contemplato nelle regole del mercato, che supera anche la giustizia. Il dono non è uno smottamento sentimentale, ma una scelta razionale. Questo dice Benedetto XVI. E senza citarla rimanda alla bellissima parabola della vigna. Il padrone della vigna dà un denaro come pattuito a chi aveva lavorato tutta la giornata, ma anche a chi aveva lavorato solo poche ore. I primi - racconta Matteo - nel ritirarlo, mormoravano contro il padrone dicendo: questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi».
Ancora: leggere, sottolineare e riflettere.