30 aprile 2009

1° maggio



Grande Eduardo!

"L'oro di napoli" è tratto dalla raccolta omonima di racconti di Giuseppe Marotta e adattati per il cinema da Cesare Zavattini.

Dei sei episodi previsti, uno, "Il funeralino" fu escluso dal montaggio. Ogni episodio ha come interprete principale un nome di primissimo piano: Totò ne "Il guappo", Eduardo De Filippo ne "Il professore", Sophia Loren in "Pizze a credito", Vittorio De Sica ne "I giocatori" e Silvana Mangano in "Teresa".

Regia: Vittorio De Sica.
Soggetto: Giuseppe Marotta.
Sceneggiatura: Cesare Zavattini, Giuseppe Marotta, Vittorio De Sica.
Produttore: Dino De Laurentiis, Carlo Ponti.

Grande cinema italiano.

24 aprile 2009

20 aprile 2009

Valori condivisi.-


Dopo aver visto quali sono le competenze della Provincia, un seconda ma altrettanto fondamentale condizione per fare bene il programma di governo dell’Ente e riuscire poi a realizzarlo è costituita da una serie di valori condivisi:
- tutela della vita in tutte le sue fasi, dal primo momento del concepimento fino alla morte naturale;
- riconoscimento e promozione della struttura naturale della famiglia, quale unione fra un uomo e una donna basata sul matrimonio, e sua difesa dai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale;
- tutela del diritto dei genitori di educare i propri figli.
E’ chiaro che se si vuole privilegiare la famiglia naturale, le politiche sociali saranno di un certo tipo; se si invece si pensa che altre forme di convivenza siano uguali alla famiglia, le politiche sociali saranno altre.
Peraltro, se non ci si intende sui valori fondativi: quale potrà essere il progetto sociale unitario che si intende realizzare o, per lo meno, favorire?
Quale politica si può costruire, se i partners hanno visioni antitetiche addirittura sulla essenza dell’uomo?
Ecco quindi un prerequisito di fondo: la condivisione di valori comuni.

19 aprile 2009

Un padre della Patria


Tempo addietro sul "Corriere della sera" (28/9/2005) Sergio Romano rispose alla lettera di un lettore, su Giuseppe Saragat.Pubblichiamo la sua risposta ritenendo che anche (e forse:...soprattutto) per merito di questo grande leader il riformismo abbia potuto continuare ad essere il vero riferimento dell'impegno di molti.

"Le chiedo perché nessun giornalista, quando elenca i grandi personaggi della prima Repubblica, fa mai il nome di Giuseppe Saragat. Si citano De Gasperi, Nenni, Togliatti, Moro, La Malfa, Fanfani e si omette il nome di un ex presidente della Repubblica che era certamente uomo di grande dirittura morale, di cultura, di ampie visioni internazionali. È una tacita «conventio ad excludendum»? Si può capire lo spirito polemico e magari anche astioso, del Pci al tempo della scissione di Palazzo Barberini, ma dopo decenni non dovrebbe essere difficile riconoscere che quella era la scelta giusta. E allora non è forse il caso di riconoscere qualche merito a Giuseppe Saragat? Nemo Gonano (nemogonano@libero.it)"

Caro Gonano, per la verità mi è accaduto di leggere il nome di Saragat in qualche articolo negli scorsi mesi, ma temo che lei abbia ragione. Non credo tuttavia nella complicità del silenzio e cercherò di dirle quali siano, a mio parere, le ragioni di questa generale smemoratezza. Quando fece il suo debutto al convegno nazionale del Partito socialista unitario nel marzo del 1925, il giovane militante torinese fu applaudito ed ebbe diritto a un caloroso abbraccio di Filippo Turati. Era intelligente, brillante e sapeva parlare con eguale passione dei due obiettivi che il partito avrebbe dovuto proporsi: l'avvento del socialismo e la creazione di uno spirito liberale. Aveva studiato a Torino, ma la sua vera università fu quella dell' esilio, prima nei circoli austro-marxisti di Vienna, poi negli ambienti del socialismo francese. Imparò il tedesco e il francese, lesse i classici del pensiero politico, lavorò con Pietro Nenni alla riunificazione del 1930 fra le due famiglie separate del socialismo italiano, scrisse un libro («L' humanisme marxiste»), ispirato dal pensiero di Léon Blum, presidente del Consiglio all' epoca del Front populaire. Era certamente un socialista democratico, profondamente convinto che il culto massimalista della lotta di classe nuocesse alle fortune del partito e lasciasse ai comunisti, in ultima analisi, la guida del campo antifascista. Ma quando la III Internazionale modificò la sua linea politica e propose ai socialisti europei, per meglio combattere Hitler e Mussolini, l'alleanza dei Fronti popolari, Saragat accettò il patto di unità d'azione che socialisti e comunisti conclusero prima della guerra. Terminato il conflitto, entrò in uno dei primi governi del dopoguerra, tornò a Parigi come ambasciatore e rientrò in Italia nel 1946 per presiedere l'Assemblea costituente. La situazione nazionale e internazionale, nel frattempo, stava cambiando rapidamente. Mentre una parte del socialismo italiano, guidata allora da Nenni, voleva conservare il patto stipulato con il Pci, un sipario di ferro (come disse Churchill in un famoso discorso) stava tagliando in due l'Europa da Danzica a Trieste. Saragat capì che era arrivato il momento di scegliere. Mentre i socialisti, nel gennaio 1947, si riunivano a Roma per il loro congresso, portò la sua corrente a Palazzo Barberini e pronunciò un discorso in cui invocò l' ombra di Turati e dichiarò che «tutto nel socialismo parla di democrazia». I massimalisti e i comunisti lo accusarono di essersi arreso all'imperialismo degli Stati Uniti (i sindacalisti italoamericani lo avevano aiutato, anche finanziariamente) e di essere ormai un «rinnegato». Ma il partito di palazzo Barberini e il suo leader divennero da quel momento un ingrediente necessario della giovane democrazia repubblicana. Saragat non rinunciò tuttavia alla prospettiva di una nuova unificazione tra i fratelli separati. Non appena la rivoluzione ungherese del 1956 incrinò il patto socialcomunista, cominciò a lanciare segnali che Nenni non tardò a raccogliere. Unificazione socialista e «apertura a sinistra» (come si chiamava la politica che portò al primo governo di centrosinistra) divennero da quel momento gli obiettivi complementari di una stessa linea politica. Il suo momento di maggiore successo fu nella seconda metà degli anni Sessanta quando venne eletto presidente della Repubblica e riuscì a festeggiare dal Quirinale l'unificazione socialista del 1966. Quando andai a salutarlo a Castel Porziano prima di partire per Parigi, nel maggio del 1968, mi raccontò alcuni momenti di storia repubblicana del 1947 e mi dette la sensazione di essere molto orgoglioso dei risultati raggiunti. Purtroppo gli anni successivi gli dettero meno soddisfazioni. L'unificazione fallì, l'Italia precipitò nella contestazione permanente, l'immagine del Paese all'estero ne soffrì e lui stesso non poté perseguire con successo il buon lavoro internazionale che aveva fatto con i suoi viaggi negli anni precedenti. Terminato il settennato, ritornò alla guida di un partito che nel frattempo aveva perduto prestigio e rigore. Morì nel 1988 quando il ricordo delle sue qualità e dei suoi successi si era ormai sbiadito. Credo anch'io che sia giunto il momento di restituire a Saragat il posto che gli spetta.

Romano Sergio

Si legga il discorso che pronunciò in occasione del giuramento quale Presidente della Repubblica: qui.

17 aprile 2009

Cominciamo dall'inizio.......


a>
In occasione sia della conferenza stampa di presentazione del Circolo sia dell'inaugurazione dei locali, abbiamo più volte affermato la nostra volontà di portare adeguati contributi al dibattito politico locale, senza nulla cedere a logiche di schieramento o altro, come, peraltro, ha ancora in questi giorni chiaramente ribadito a nome del Circolo il nostro socio e consigliere Ezio Sestini.
Ora, poichè le elezioni provinciali si avvicinano e sta giungendo il tempo della presentazione dei programmi da parte dei diversi candidati, ecco l'occasione propizia per dire la nostra. Lo faremo di volta in volta, con ragionamenti che saranno postati accompagnati dall'immagine del libro aperto sull'orizzante di un cielo che si rasserena col tepore di un'alba: più chiaro di così.....
Bene, come si suol dire: cominciamo dall'inizio.
Dovendo redigere il programma di attività di un ente istituzionale, di un'articolazione locale dello Stato non si può scrivere ciò che si vuole o ciò che piacerebbe fare se si venisse eletti. Semmai, bisogna scrivere ciò che si DEVE fare, cioè ciò che la legge chiede di fare agli eletti. Vediamo allora quali sono le competenze della Provincia, perchè se si hanno ben chiare le competenze che la legge assegna alla Provincia tutto il resto ne discenderà altrettanto chiaramente:


Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 - Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli Enti locali
(pubbl. sulla G. U. n. 227 del 28 settembre 2000 – suppl. ord. n. 162)
CAPO II
PROVINCIA
Articolo 19
FUNZIONI
1. Spettano alla provincia le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale nei seguenti settori:
a)difesa del suolo, tutela e valorizzazione dell'ambiente e prevenzione delle calamita';
b) tutela e valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche;
c) valorizzazione dei beni culturali;
d) viabilita' e trasporti;
e) protezione della flora e della fauna parchi e riserve naturali;
f) caccia e pesca nelle acque interne;
g) organizzazione dello smaltimento dei rifiuti a livello provinciale, rilevamento, disciplina e controllo degli scarichi delle acque e delle emissioni atmosferiche e sonore;
h) servizi sanitari, di igiene e profilassi pubblica, attribuiti dalla legislazione statale e regionale;
i) compiti connessi alla istruzione secondaria di secondo grado ed artistica ed alla formazione professionale, compresa l'edilizia scolastica, attribuiti dalla legislazione statale e regionale;
l) raccolta ed elaborazione dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali.


2. La provincia, in collaborazione con i comuni e sulla base di programmi da essa proposti promuove e coordina attivita', nonche' realizza opere di rilevante interesse provinciale sia nel settore economico, produttivo, commerciale e turistico, sia in quello sociale, culturale e sportivo.

3. La gestione di tali attivita' ed opere avviene attraverso le forme previste dal presente testo unico per la gestione dei servizi pubblici locali.

Articolo 20
COMPITI DI PROGRAMMAZIONE
1. La provincia:
a) raccoglie e coordina le proposte avanzate dai comuni, ai fini della programmazione economica, territoriale ed ambientale della regione;
b) concorre alla determinazione del programma regionale di sviluppo e degli altri programmi e piani regionali secondo norme dettate dalla legge regionale;
c) formula e adotta con riferimento alle previsioni e agli obiettivi del programma regionale di sviluppo propri programmi pluriennali sia di carattere generale che settoriale e promuove il coordinamento dell'attivita' programmatoria dei comuni.

2. La provincia, inoltre, ferme restando le competenze dei comuni ed in attuazione della legislazione e dei programmi regionali, predispone ed adotta il piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio e, in particolare, indica:
a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti;
b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione;
c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque;
d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali.

3. I programmi pluriennali e il piano territoriale di coordinamento sono trasmessi alla regione ai fini di accertarne la conformita' agli indirizzi regionali della programmazione socio-economica e territoriale.
4. La legge regionale detta le procedure di approvazione, nonche' norme che assicurino il concorso dei comuni alla formazione dei programmi pluriennali e dei piani territoriali di coordinamento.
5. Ai fini del coordinamento e dell'approvazione degli strumenti di pianificazione territoriale predisposti dai comuni, la provincia esercita le funzioni ad essa attribuite dalla regione ed ha, in ogni caso, il compito di accertare la compatibilita' di detti strumenti con le previsioni del piano territoriale di coordinamento.
6. Gli enti e le amministrazioni pubbliche, nell'esercizio delle rispettive competenze, si conformano ai piani territoriali di coordinamento delle province e tengono conto dei loro programmi pluriennali.

Queste sono le attribuzioni che l'ordinamento dello Stato attribuisce alle Province.
Poi, la Provincia di Alessandria nel proprio Statuto definisce così le funzioni che intende svolgere:

TITOLO II - FUNZIONI, COMPITI E FINALITA’ PARTICOLARI
Articolo 9 – Funzioni
1. La Provincia svolge tutte le funzioni e i compiti amministrativi finalizzati alla
rappresentanza, alla cura degli interessi, alla promozione e al coordinamento dello
sviluppo della comunità provinciale che, nell’osservanza del principio di sussidiarietà,
sono ad essa attribuiti da leggi statali e regionali.
2. La Provincia, quale soggetto di programmazione di area vasta, provvede, in
armonia con la programmazione regionale ed in raccordo con le province confinanti,
alla formazione del piano territoriale di coordinamento, nonché allo svolgimento dei
compiti di programmazione socioeconomica territoriale ed ambientale, in un costante
rapporto di collaborazione con i Comuni del territorio.
3. La Provincia predispone, inoltre, i piani di settore d’intesa con gli enti territoriali
locali. Sono comunque fatte salve le necessarie riserve di competenza.
Articolo 10 – Compiti
1. Il compito di programmazione della Provincia si sviluppa in primo luogo come
elaborazione delle istanze comunali in un costante rapporto di collaborazione con la
Regione, i Comuni, le Comunità Montane. In particolare la Provincia:
a) raccoglie e coordina le proposte avanzate dai Comuni, ai fini della programmazione
socio-economica, territoriale ed ambientale;
b) concorre alla determinazione del programma regionale di sviluppo e degli altri
programmi e piani regionali secondo norme dettate dalla legge regionale;
c) formula e adotta, con riferimento alle previsioni e agli obiettivi del programma
regionale di sviluppo, propri programmi pluriennali, sia di carattere generale che
settoriale, e promuove il coordinamento dell’attività programmatoria dei Comuni;
d) garantisce , attraverso propri programmi e progetti, la promozione di azioni
positive per l’uguaglianza di opportunità tra uomo e donna, secondo quanto previsto
dalla legge, anche ricercando la collaborazione di altre amministrazioni ed enti;
e) assicura assistenza tecnico-amministrativa e consulenza finanziaria agli enti locali,
con particolare riferimento ai piccoli e medi Comuni, sia promuovendo iniziative di
coordinamento di servizi e di unificazione, sia ponendo a disposizione le proprie
strutture;
f) assicura assistenza all’infanzia illegittima, ai non vedenti ed agli audiolesi,
esercitata direttamente o in regime di convenzione con i Comuni, secondo quanto
previsto dalle leggi regionali di settore;
g) raccoglie ed elabora dati sia in adempimento di compiti assegnati da leggi statali e
regionali, sia per fornire in modo autonomo e correlato alle esigenze locali, elementi di
valutazione ai Comuni ed alle organizzazioni sociali ed economiche della provincia.
Articolo 11 – Deleghe
1. La Provincia esercita inoltre le funzioni amministrative per servizi assegnati con
leggi dello Stato o delegati dalla Regione.
Articolo 12 - Obiettivi preminenti
1. La Provincia di Alessandria afferma come obiettivi preminenti della propria azione
politica ed amministrativa lo sviluppo economico, sociale e culturale della comunità
provinciale, finalizzato all’affermazione dei valori umani ed al soddisfacimento dei
bisogni collettivi.
2. Riconosce che, per perseguire e realizzare tale fine, è elemento fondamentale la
collaborazione dei Comuni, delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di
lavoro, delle associazioni ed organizzazioni di categoria, nonché di ogni altra
formazione sociale e democratica dei cittadini liberamente costituita.
3. Pone a base della sua azione politica ed amministrativa, nell’ambito delle proprie
competenze e nelle forme stabilite dalla legge, un’attenzione particolare ai problemi
della tutela e difesa dell’ambiente, alla valorizzazione dei beni culturali, alla
eliminazione di ogni forma di inquinamento.
Articolo 13 - Finalità particolari
1. La Provincia, in collaborazione con i Comuni, singoli e associati, e sulla base di
programmi, può promuovere e coordinare attività nonché realizzare opere di rilevante
interesse provinciale sia nel settore economico, produttivo, commerciale e turistico, sia
in quello sociale, culturale, sportivo e della salute.
2. In particolare, la Provincia di Alessandria si impegna ad operare, compatibilmente
con le risorse disponibili con la tutela dell’ambiente, nei seguenti settori:
•di iniziative, in accordo e collaborazione con le associazioni di categoria, gli enti
economici e locali, atte a favorire lo sviluppo industriale, del terziario avanzato,
promozioni dell’artigianato qualificato;
•promozione di iniziative di sostegno all’agricoltura, ed in particolare alle
produzioni tipiche e di qualità, nonché per la salvaguardia del patrimonio
agricolo-boschivo nell’ambito di un adeguato equilibrio territoriale;
•promozione di iniziative che favoriscano la cooperazione economica, culturale e
sociale tra i popoli con particolare riguardo a quelli in via di sviluppo;
•promozione di iniziative intese ad agevolare e promuovere lo sviluppo
economico e sociale, le attività turistiche ed agrituristiche, la valorizzazione dei
prodotti tipici locali, con particolare riferimento ai territori montani e collinari;
•promozione di iniziative in materia di risparmio energetico e fonti rinnovabili
secondo le leggi vigenti;
•promozioni di iniziative tese a salvaguardare ed a ripristinare condizioni di
equilibrio ambientale;
•promozione di iniziative per la valorizzazione delle risorse culturali ed artistiche
locali, per il recupero e la valorizzazione dei teatri comunali, musei e
biblioteche, operando per la realizzazione di un coordinamento delle loro
attività;
•promozione di iniziative scolastiche finalizzate alla formazione culturale dei
giovani;
•promozioni di iniziative per il recupero ed il rilancio del patrimonio linguistico e
delle tradizioni popolari della provincia;
•interventi per concorrere ad affermare il ruolo determinante dell’Università di
Alessandria anche in associazione con altre Province per lo sviluppo ed il
progresso sociale, culturale ed economico della comunità provinciale;
•promozione e coordinamento di iniziative tese a favorire lo sviluppo
dell’occupazione e l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro;
•interventi per il potenziamento e la costruzione di strutture ed attrezzature, atte a favorire lo sport amatoriale e dilettantistico ed il turismo culturale, sociale e
giovanile;
•promozione e coordinamento degli interventi tendenti a migliorare la qualità dei
servizi nel settore della salute;
•interventi di solidarietà agli anziani attraverso l’organizzazione di idonee
strutture e di iniziative socio-culturali, nonché attività di aggregazione e di
turismo sociale;
•promozione e partecipazione ad iniziative per il recupero ed il reinserimento
sociale dei tossicodipendenti; promozione di politiche e programmi di sostegno
alle condizioni dei disabili, per favorirne l’inserimento nel mondo del lavoro e
nella società, rimuovendo gli ostacoli sociali e strutturali, tra cui le barriere
architettoniche.

Per ora fermiamoci quì...

14 aprile 2009

Lezione sul riformismo


Di Giuliano Amato non condividiamo parecchie cose: a cominciare dal suo schierarsi, tuttavia non possiamo non riconoscere che il suo "sottile" ragionamento è in grado di portare sempre importanti contributi.
Il testo che proponiamo è tratto dalla lezione su "Riformismo e riformismi nella lunga tradizione e transizione italiana" da lui tenuta a Milano il 12 ottobre 2001 in un incontro organizzato da Casa della Cultura e Fondazione Italianieuropei.


Oggi c'è ancora spazio per il riformismo, oppure anch'esso è stato travolto dalla fine del XX secolo?

La mia risposta è positiva, perché in questo mondo sono enormi i rischi di esclusione, di divaricazione economica e sociale, di conflitti ingestibili. Non è venuto meno il bisogno, anzi si è esteso su scala planetaria, con una acuita domanda di riequilibrio nei confronti di un'economia che è largamente sfuggita alle regolazioni statuali ed è quindi in condizioni di riprodurre le sue originarie spinte squilibranti e addirittura devastanti.
Il termine riformismo, pur mantenendo un proprio significato originario, è stato fatto proprio nel tempo da tradizioni diverse della cultura e dell'azione politica.
Nel linguaggio corrente della politica sentiamo infatti parlare di riformismo socialista, di riformismo cattolico-popolare, di riformismo liberal-democratico, fino ad arrivare a coloro che parlano di riformismo thatcheriano. In termini generali, quindi, il termine riformismo finisce per includere l'orientamento di chiunque voglia riformare l'esistente, in qualunque senso ed in qualunque direzione.
A ben guardare questa definizione ha un suo senso, e questo sta nel fatto che la distinzione conservatori/progressisti non significa semplicemente che i primi vogliono lasciare immutato lo stato esistente delle cose, mentre solo i secondi lo vogliono cambiare. Può esservi chi vuole modificare gli aspetti esistenti, per rimuovere garanzie e difese sociali, che ritiene di ostacolo alla dinamica del mercato. Esattamente in questa direzione agì il governo della signora Thatcher, che pose in essere una politica riformista per i fini e con il sostegno di chi era politicamente conservatore.
In Italia il genus è inteso in senso più ristretto e tende ad includere quelle culture politiche che si ripropongono una innovazione volta a realizzare una maggiore eguaglianza sociale, favorendo le possibilità di inclusione di coloro che sono esclusi o che possono ricadere fra gli esclusi. In questo senso si assimilano diverse culture che fanno capo al centro-sinistra, ciascuna delle quali ritiene di portare il proprio contributo riformista; la triade che esse formano (riformismo socialista, cattolico-popolare e liberal-democratico, con l'ambientalismo che li arricchisce tutti) possono essere declinate come le culture dell'Ulivo.

Le critiche di Bernstein

Ma questa stessa definizione, ancorché più ristretta della precedente, rimane un'accezione generica perché nei suoi connotati storici originari il riformismo appartiene alla tradizione della cultura politica socialista. Un piccolo esempio basterà a dimostrarlo. Guardando sulle comuni enciclopedie, alla voce riformismo le definizioni suonano tutte più o meno così: "Impostazione politica volta a modificare lo stato esistente delle cose con metodi legali". È chiaro a tutti che altri riformismi, si pensi a quello cattolico-popolare, non si sono mai posti il problema della legalità e quindi dell'uso illegale della forza per raggiungere il loro scopo. È dunque questa definizione con la sua semplicità a farci entrare nella storicità del riformismo socialista, il quale nasce in contrapposizione al progetto di modifica dell'assetto esistente con metodi rivoluzionari e appartiene alla dialettica intema al mondo socialista fra la seconda parte del secolo XIX e l'inizio del XX. La contrapposizione tra riforme e rivoluzione si collega fondamentalmente alle due interpretazioni alle quali fu assoggettato il pensiero di Marx. C'è l'interpretazione secondo la quale i sistemi di produzione capitalistica portano con sé il crescente sfruttamento dei salariati, alimentando il proprio sviluppo attraverso la acquisizione del plusvalore generato dal loro lavoro. La tensione creata da questo processo (insieme alla coscienza di sé e all'organizzazione che lo stesso processo genera fra i salariati) porta alla fine al rovesciamento di questo modo di produzione in nome di un nuovo sistema che sottrae alla proprietà privata i mezzi di produzione. È evidente che questa interpretazione di Marx indica come sbocco la rivoluzione.
Chi l'ha criticata con gli argomenti che ne hanno fatto poi il padre più lucido del riformismo è stato Bernstein, che ne ha messo in discussione gli snodi cruciali. Bernstein nega che lo sviluppo sia affidato al crescente sfruttamento dei salariati. Le modalità organizzative dell'impresa capitalistica e le innovazioni tecnologiche che la interessano, nota Bernstein, consentono una crescita costante della produttività, che da una parte alimenta gli investimenti ulteriori, dall'altra può essere condivisa in termini di migliori salari dai lavoratori, che usino le libertà borghesi per farsi valere. È così contraddetta l'ipotesi secondo la quale soltanto un crescente depauperamento della classe operaia renderebbe possibile il funzionamento della macchina produttiva. È altresì messa in dubbio la scomparsa dei ceti medi, che potranno anzi allargarsi grazie al miglioramento delle condizioni di vita dei salariati. È infine sottolineato che le libertà borghesi offrono spazio all'affermazione dei diritti di cittadinanza dei deboli. La mia è una sintesi molto schematica, ma è sulla base di questi argomenti che Bernstein concluderà affermando che quel che conta non è la finalità ultima, ma è il movimento. "Il movimento è tutto" è una famosa frase di Bernstein che sintetizza le sue conclusioni e che è mal capita da chi pensa che si faccia riferimento al "movimento" così come oggi ne sentiamo parlare a proposito della globalizzazione. Bernstein intendeva dire che il risultato non è affidato al fine ultimo e che è la dinamica della realtà che produce di per sé esiti migliorativi. I primi riformisti della storia accettano il cuore delle argomentazioni di Bernstein, ma in fondo non pensano che il movimento sia tutto, bensì che esso serva - e lo si debba utilizzare - per arrivare comunque al fine, cioè alla trasformazione dell'assetto produttivo sino alla realizzazione della proprietà socialista dei mezzi di produzione. Questa è la linea che emerge fra i riformisti del partito che è il nonno di tutta la sinistra italiana, e cioè il Partito Socialista Italiano nato nel 1892. Quei riformisti sono dei "gradualisti". Per loro essere riformisti vuol dire puntare al superamento finale del sistema capitalistico, ma arrivandoci attraverso il movimento, come dice Bernstein. Negli stessi termini il riformismo prende forza nel più grande partito del socialismo europeo del tempo, l'Spd, la socialdemocrazia tedesca.

Occuparsi del presente

Il riformismo di inizio secolo, dunque, ha un germe finalistico, e non a caso la leadership delI'Spd guarda a Bernstein come ad un eretico, proprio perché egli nega l'importanza del fine ultimo a vantaggio delle dinamiche che di volta in volta consentono progressi sociali. E tuttavia, per quanto finalistico, quello stesso riformismo di inizio secolo impara da Bernstein ad occuparsi del presente, delle condizioni attuali di coloro che si riconoscono nel movimento socialista e quindi ad adoperarsi, attraverso il conflitto sociale e la negoziazione all'interno delle istituzioni, per migliorarle.
Di qui inizia il processo delle conquiste riformiste rivolte al presente. Ci si batte perché possa esservi un conflitto sociale senza che i carabinieri si schierino con i padroni, perché illegale non sia scioperare, ma solo usare la violenza non giustificata da legittima difesa. Ci si batte perché l'orario di lavoro per le donne e i bambini non debba essere di diciotto ore ma di quattordici, e poi di dodici e poi ancora di meno. Ci si batte perché chi lavora possa creare le premesse per ottenere un trattamento pensionistico nella vecchiaia e un reddito che lo assista nei periodi in cui non può lavorare perché si è rotto una gamba. Ci si batte perché il latte, il gas e la luce possano essere forniti da aziende di proprietà pubblica che, in quanto non motivate da profitto, sono disposte anche a portarlo a quei clienti che il gergo degli economisti definisce marginali e per i quali il costo può superare la remunerazione del servizio. Tutte queste sono le conquiste del riformismo socialista, in particolare italiano, nel primo periodo della sua storia. Esse sono il frutto di un'azione che si svolge a più livelli: fornendo libertà e diritti nella lotta sociale, modificando le istituzioni locali, modificando legislazioni nazionali, creando nuove istituzioni.
Quali ne sono gli effetti? Il primo - il più ovvio - è quello di migliorare concretamente le condizioni di vita dei rappresentati. Il secondo è quello di rendere più gestibile e vivibile il conflitto sociale, non più immediatamente schiacciato da una repressione in cui lo stato assiste unilateralmente una sola delle parti. Il terzo è quello di assicurare governabilità e progressiva coesione all'assetto sociale esistente. Questo è un punto di straordinaria importanza: al di là dei traguardi che raggiunge nell'immediato, l'azione del riformismo ha l'effetto più profondo di rimuovere le ragioni della più forte conflittualità e, offrendo soluzioni che sono utili ad entrambe le parti in conflitto, stabilizza l'assetto sociale. Faccio un esempio banale. Richieste come quella di avere l'assicurazione per l'invalidità, un trattamento di vecchiaia, una qualche forma di assicurazione sanitaria maturano nella lotta sociale e sono poste quindi da ciascun segmento operaio alle proprie controparti datoriali. Nessun datore di lavoro avrebbe potuto da solo fornire questi servizi, neppure in forma di quote aggiuntive di salario, perché per ciascuno di loro i costi sarebbero stati proibitivi. Il modo di risolvere questioni del genere era solo quello di collettivizzarle così da ripartirne i rischi. È quello che ha fatto l'azione riformista, in forme diverse da paese a paese, e in tal modo ha ridotto il potenziale di conflitto e contestualmente ha innalzato il livello di civiltà di ciascuno dei paesi in cui questo è accaduto.
L'effetto quindi è stato quello di rendere più governabili e più civili le nostre società. La naturale unilateralità sfruttatrice della macchina capitalistica, così come inizialmente si era messa in moto nelle prime fasi dello sviluppo industriale, è stata bilanciata da un'azione che ha sottoposto il conflitto ad un intervento pubblico regolatore. Attraverso la regolazione e le istituzioni pubbliche il riformismo ha così ottenuto risultati riequilibranti a benefìcio sia dei deboli che dell'insieme.

Il modello europeo

Il primo riformismo dell'inizio del secolo non ha peraltro dirette responsabilità di governo, né assume apertamente una responsabilità nazionale. La esercita tuttavia nelle cose, perché, chiedendo ed ottenendo riforme, previene la violenza, riduce le distanze sociali e produce coesione. Applica così il paradigma secondo il quale nessuna società è governabile se le disuguaglianze superano il limite che le rende insostenibili e porta quindi all'avvitamento violenza/autoritarismo.
Poggeranno su questo fondamento le esperienze riformiste più compiute della prima parte del secolo, quelle cioè dei paesi in cui i partiti socialisti vanno al governo in situazioni di crisi economica a seguito della grande depressione degli anni 1929 e 1950. Nel Regno Unito, in Svezia, in Belgio i partiti socialisti vengono chiamati a governare proprio in ragione di difficoltà che portano la maggioranza dell'elettorato ad affidare le sue speranze alle forze politiche che promettono più protezione e più equilibrio sociale. Assumendo responsabilità di governo i partiti socialisti trovano già nella loro pur breve tradizione il paradigma che fa coincidere l'interesse della parte che rappresentano con l'interesse nazionale. Ed è proprio questa la ragione per la quale sono poi accettati come guida politica dello stato. Ma nell'applicarlo, a differenza dei loro predecessori, lo nutrono e lo arricchiscono con culture anche diverse da quelle dell'origine. Se all'inizio del secolo le impostazioni del riformismo erano i autoprodotte (l'azienda pubblica non motivata dal profitto, che fornisce i servizi essenziali è frutto proprio dell'elaborazione interna alla cultura socialista) a partire dagli anni trenta è Keynes il grande ispiratore dei governi socialisti. Ma il nuovo eclettismo culturale mantiene le vecchie finalità: sostenere il reddito delle famiglie, fare in modo che si creino e non si distruggano i posti di lavoro, evitare l'esclusione. E' qui che entra Keynes, quando insegna che il risparmio come tale non serve a nulla se non diventa investimento, perché l'investimento genera posti di lavoro, che generano reddito, che poi viene speso e mantiene alto il Prodotto interno lordo. È il circuito virtuoso di un'economia che funziona a pieno ritmo e che allarga, anziché ridurre il benessere.
È anche il circuito virtuoso del riformismo, ma questo non cancella le dispute che hanno caratterizzato la storia dei partiti socialisti. Al contrario, quelli che continuano a pensare alla finalizzazione ineludibile, cioè al rovesciamento del sistema capitalistico, vedono nell'impegno riformista il rischio che esso impedisca alla lunga di arrivarci. È l'atteggiamento tipico dei massimalisti, i quali, per decenni interlocutori dialettici dei riformisti, temono che le riforme, riducendo lo spirito combattivo della classe operaia ed assimilandone gusti, modi e aspettative al ceto medio la rendano inutilizzabile per il giorno della chiamata al rovesciamento. E in Italia che cosa è successo? Il vero problema italiano è che la sinistra nel 1921 si è divisa. In quell'anno i riformisti italiani non vivono un momento esaltante della loro storia. Non è vero infatti che la scissione è il frutto della decisione dei comunisti di non stare più con i riformisti. Il conflitto determinante oppone i (futuri) comunisti alla inconcludenza dei vecchi massimalisti che hanno la maggioranza nel partito. Se Turati, e quindi il riformismo, appare come la vittima di quella vicenda è perché i vecchi massimalisti si stringono intorno a lui e alla sua opposizione a una scissione, che egli legge con grande lungimiranza.
La storia darà ragione a Turati, che vede nel comunismo la fonte di regimi caratterizzati dalla mancanza di dialettica interna e di libertà e quindi degli strumenti essenziali alla classe operaia per migliorare le sue stesse condizioni.
La storia darà ragione a Turati, ma quei regimi non entreranno in Italia. L'Italia si trova con un partito socialista che è l'erede naturale del riformismo, ma è privato di larga parte del suo substrato sociale, e con un partito comunista che intreccia il suo destino con quello dell'Intemazionale Comunista e dell'Urss e che tuttavia riesce anche a costruire un solido radicamento nazionale per una pluralità di ragioni: l'acquisizione della rete sociale e organizzativa del vecchio partito; il ruolo che esercita nella lotta contro il fascismo, che lo fa avvicinare da molti giovani, spinti più dall'antifascismo che da adesione al comunismo; il ruolo del sindacato che rimane un luogo nel quale socialisti e comunisti continuano a lavorare insieme.
Una volta superata l'unità d'azione nata nella lotta al fascismo e messa in discussione dalla solidarietà del Pci con la repressione sovietica della rivolta di Budapest del 1956, la divisione fra socialisti e comunisti diviene aspra e irrimediabilmente dannosa. Aspra perché ci si contesta la legittimazione a rappresentare le ragioni della sinistra e si è concorrenti sullo stesso mercato. Irrimediabilmente dannosa, perché i due partiti avevano ciascuno risorse di cui anche l'altro avrebbe avuto bisogno per valorizzare al meglio le proprie. Erano più pronti e ricettivi i socialisti nel cogliere le ragioni del cambiamento sociale alle possibili risposte, erano più capaci i comunisti di trasmettere i loro indirizzi in forma di missione nazionale, condivisa come impegno civile. Ma il conflitto fra le due parti fece sì che avessimo da una parte indirizzi vitali insufficientemente tradotti in missioni nazionali, dall'altro missioni sprovviste di indirizzi vitali.
La divisione non venne mai meno e finì per essere conflitto all'ultimo sangue. Eppure, chi ne legge le vicende non può non accorgersi dei fili comuni che attraversavano entrambi i partiti. Erano i fili del massimalismo, che era ben presente anche nel Psi (di sicuro più nel primo, però, che non nel secondo centro-sinistra). Ed erano i fili del riformismo, che era ben presente nello stesso Pci. Un celebre convegno sul capitalismo italiano organizzato dall'Istituto Gramsci nel 1962 illustra le due tesi che animano in quegli anni la discussione interna ai comunisti. C'è la tesi, allora ingraiana, per cui bisogna incrementare il conflitto perché è solo così che si possono raggiungere risultati significativi, prevenendo riforme che sarebbero di pura razionalizzazione capitalistica. E c'è la tesi di Amendola, il quale ritiene che il capitalismo italiano sia ancora troppo arretrato per tollerare una conflittualità elevata. E pensa che sia meglio rimuoverne le ragioni per non svegliare altrimenti la tigre reazionaria. È un'impostazione trasparentemente vicina a quella dei riformisti dell'inizio del secolo.

L'eredità del massimalismo

Ciò nondimeno sappiamo tutti com'è andata a finire. Oggi non ci sono più né quel partito socialista né quel partito comunista. Ma c'è ancora spazio per il riformismo, oppure è stato travolto anch'esso dalla fine del XX secolo?
Certo molte, moltissime cose sono cambiate e sono cambiate in direzioni che si allontano molto dalle impostazioni che il riformismo aveva seguito nel secolo scorso. Il riformismo |era stato statalista in duplice senso: perché aveva promosso in modo accentuato la gestione pubblica dell'economia, attraverso le imprese pubbliche nazionali e locali, e perché aveva costruito, in ciascuno stato, le sue reti di regolazioni, di riequilibrio e di tutela sociale. Oggi, da un lato c'è molta meno fiducia nelle imprese pubbliche (che dopo decenni di esperienza sono parse in più casi meno provvide per gli utenti di una ben regolata concorrenza) e c'è dall'altro lato l'oggettiva impossibilità di regolare lo sviluppo e la diffusione del benessere entro i confini statali, perché su di essi incidono ormai variabili sovranazionali, se non globali. Il riformismo aveva contato sulle grandi identità collettive cresciute entro i grandi agglomerati della prima fase dell'industrializzazione del fordismo. Oggi quei grandi agglomerati si stanno assottigliando, l'organizzazione delle imprese e la tipologia dei lavori sono diverse, viviamo sempre più in società frammentate. Il mondo è così da una parte smisuratamente più grande, dall'altra ricondotto alle ragioni e ai bisogni di ciascuno di noi, di tante individualità distinte.
E allora, che cosa può dire ancora il riformismo? Può e deve dire ancora tantissimo, perché in questo contesto, non meno e forse ancora di più che in quello in cui nacque, sono enormi i rischi di esclusione, di divaricazione economica e sociale, di conflitti ingestibili; non è venuto meno il bisogno di riformismo, si è all'opposto esteso a scala planetaria, con una acuita domanda di riequilibrio nei confronti di un'economia che è largamente sfuggita alle regolazioni statuali ed è quindi in condizioni di riprodurre le sue originarie spinte squilibranti e addirittura devastanti.
Né confrontarsi con società di individui, con persone che si sentono tali, che hanno o vogliono avere una loro professionalità sul lavoro, che vogliono essere liberi di (e quindi liberi di scegliere) e non solo liberi da (e quindi essere protetti) dovrebbe spaventare i riformisti. È in fondo il segno del futuro che essi hanno sempre cercato di costruire, quello di una società in cui non solo i pochi, ma i più possono sentirsi liberi, non grazie a ricchezze finanziarie che già hanno alle spalle, ma grazie alle conoscenze e alle competenze di cui li si aiuta a dotarsi. E qui inizia il nuovo capitolo del riformismo. Per questo se ne può concludere, con fiducia, la storia fin qui realizzata.

08 aprile 2009

Riformismo e autonomia; non subalternità.


Il nostro Socio e Consigliere Ezio Sestini ha rilasciato la seguente intervista che, riguardando anche la collocazione del Circolo, ci facciamo premura di pubblicare.
Ezio Sestini, Capogruppo socialista in Consiglio comunale: allora, cosa faranno i socialisti alle prossime elezioni amministrative?
La posizione dello SDI non mi entusiasma, anzi devo dire che non la condivido. Non credo che l’avvenire dei socialisti possa consistere in un’alleanza con i verdi, con “pezzi” di Rifondazione ex-comunista, etc.
Appartengo per storia e per cultura al riformismo, al garantismo, e non al giustizialismo ed allo statalismo.
E' una posizione di ampia autonomia senza alcuna subalternità.
Ed è condivisa da moltissimi socialisti che in questi giorni hanno avuto modo di esprimermi il loro sostegno.
Lei è tra i Soci che hanno ridato vita al Circolo di Studi Sociali. Ma questo Circolo ha una funzione alternativa allo SDI?
Come abbiamo detto sia alla conferenza stampa di presentazione del Circolo sia in occasione dell’inaugurazione, il Circolo intende presentare proposte, idee, discutere, dibattere i diversi problemi che agitano la nostra realtà cittadina.
Peraltro, i Soci appartengono a diverse culture ed hanno diversa formazione che però hanno il minimo comune denominatore - come dice il nostro Statuto – nel “riformismo” (sia di ispirazione socialista-democratica sia di ispirazione cattolico-liberaldemocratica riferita anche alla dottrina sociale della Chiesa), adeguati all'evoluzione ed alle circostanze dei tempi e dei rapporti sociali.
Il Circolo, quindi, si riferisce ad un modello di società, fondata sugli irrinunciabili principi della libera iniziativa economica e della tutela delle classi deboli, capace di aggregare tutte le forze innovatrici della società civile, di eliminare conflitti, divisioni ideologiche e disuguaglianze sociali.
Il Circolo è particolarmente impegnato nella difesa dello Stato repubblicano fondato sulla Costituzione affinchè tutti possano realizzare una effettiva partecipazione alla direzione della società e dello Stato."
Certamente ci sono molti socialisti, ma altrettanti “non socialisti”; c’è una pluralità di posizioni che è anche la forza dell’associazione.
E se ci fosse la possibilità di esprimere un candidato alle prossime elezioni?
Posso dire a nome di tutti i Soci, che il Circolo - in quanto tale - non esprimerà e non dovrà esprimere alcun candidato.
Non abbiamo alcun legame con nessuno.
Ciò che abbiamo fatto finora è il risultato dell’impegno personale dei Soci, che hanno lavorato ed anche “contribuito” per la migliore riuscita della “partenza” del Circolo. Continueremo così.
Il nostro contributo sarà di proposte e di azione, rapportate ai programmi.
E’ necessaria una forte dose di innovazione negli Enti Locali che presentano, purtroppo, strutture ferme all’ “antica” legge comunale e provinciale, e pertanto non in grado di affrontare le sfide che oggi la realtà delle nostre comunità locali deve combattere.
Certamente, richieste ce ne sono state ed anche come associazione siamo stati, come dire, un po’ provocati da alcuni commenti che hanno continuato a sottolineare il fatto che il Circolo riprende la sua attività a ridosso della campagna elettorale.
Ma, lo ripeto, non avremo candidati. Se sarà necessario, prenderemo posizione ma solo sui programmi nel momento in cui saranno chiari, ed i nostri impegni futuri anche operativi avranno come unico obiettivo il bene ed il progresso delle comunità locali, e la rappresentanza delle nostre proposte.
Bisogna prendere atto che all’inaugurazione del Circolo c’era davvero – come si suol dire - un “mare di gente”?
Effettivamente è una cosa che ha sorpreso anche noi.
A nome del Circolo, ringrazio davvero tutti.
Sì, c’erano tante autorità e tanti addetti ai lavori.
Ma c’era tantissima gente proveniente anche da tutta la provincia (Casale, Valenza, Acqui, Pomaro, Bozzole, Novi, per dire di alcune realtà territoriali), che è stata e vuole continuare ad impegnarsi sui nostri valori, con noi.

A tutti gli uomini liberi e forti....


Pubblichiamo integralmente l'appello ai "liberi e forti" del gennaio 1919, fatto dalla Commissione provvisoria del Partito Popolare Italiano, fondato e guidato da Don Luigi Sturzo. Dopo 90 anni è ancora un elemento di considerazione e di studio che conserva intatta la freschezza della sua validità.
* * *
Partito Popolare Italiano
A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnano nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà. E mentre i rappresentanti delle Nazioni vincitrici si riuniscono per preparare le basi di una pace giusta e durevole, i partiti politici di ogni paese debbono contribuire a rafforzare quelle tendenze e quei principi che varranno ad allontanare ogni pericolo di nuove guerre, a dare un assetto stabile alle Nazioni, ad attuare gli ideali di giustizia sociale e migliorare le condizioni generali, del lavoro, a sviluppare le enrgie spirituali e materiali di tutti i paesi uniti nel vincolo solenne della "Società delle Nazioni".
E come non è giusto compromettere i vantaggi della vittoria conquistata con immensi sacrifici fatti per la difesa dei diritti dei popoli e per le più elevate idealità civili, così è imprescindibile dovere di sane democrazie e di governi popolari trovare il reale equilibrio dei diritti nazionali con i supremi interessi internazionali e le perenni ragioni del pacifico progresso della società.
Perciò sosteniamo il programma politico-morale patrimonio delle genti cristiane, ricordato prima da parola angusta e oggi propugnato da Wilson come elemento fondamentale del futuro assetto mondiale, e rigettiamo gli imperialismi che creano i popoli dominatori e maturano le violente riscosse: perciò domandiamo che la Società delle Nazioni riconosca le giuste aspirazioni nazionali, affretti l'avvento del disarmo universale, abolisca il segreto dei trattati, attui la libertà dei mari, propugni nei rapporti internazionali la legislazione sociale, la uguaglianza del lavoro, le libertà religiose contro ogni oppressione di setta, abbia la forza della sanzione e i mezzi per la tutela dei diritti dei popoli deboli contro le tendenze sopraffatrici dei forti.
Al migliore avvenire della nostra Italia - sicura nei suoi confini e nei mari che la circondano - che per virtù dei suoi figli, nei sacrifici della guerra ha con la vittoria compiuta la sua unità e rinsaldta la coscienza nazionale, dedichiamo ogni nostra attività con fervore d'entusiasmi e con fermezza di illuminati propositi.
Ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali - la famiglia, le classi, i Comuni - che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E perché lo Stato sia la più sincera espressione del volere popolare, domandiamo la riforma dell'Istituto Parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto delle donne, e il Senato elettivo, come rappresentanza direttiva degli organismi nazionali, accademici, amministrativi e sindacali: vogliamo la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione, invochiamo il riconoscimento giuridico delle classi, l'autonomia comunale, la riforma degli Enti Provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali.
Ma sarebbero queste vane riforme senza il contenuto se non reclamassimo, come anima della nuova Società, il vero senso di libertà, rispondente alla maturità civile del nostro popolo e al più alto sviluppo delle sue energie: libertà religiosa, non solo agl'individui ma anche alla Chiesa, per la esplicazione della sua missione spirituale nel mondo; libertà di insegnamento, senza monopoli statali; libertà alle organizzazioni di classe, senza preferenze e privilegi di parte; libertà comunale e locale secondo le gloriose tradizioni italiche.
Questo ideale di libertà non tende a disorganizzare lo Stato ma è essenzialmente organico nel rinnovamento delle energie e delle attività, che debbono trovare al centro la coordinazione, la valorizzazione, la difesa e lo sviluppo progressivo. Energie, che debbono comporsi a nuclei vitali che potranno fermare o modificare le correnti disgregatrici, le agitazioni promosse in nome di una sistematica lotta di classe e della rivoluzione anarchica e attingere dall'anima popolare gli elementi di conservazione e di progresso, dando valore all'autorità come forza ed esponente insieme della sovranità popolare e della collaborazione sociale.
Le necessarie e urgenti rifrome nel campo della previdenza e della assistenza sociale, nella legislazione del lavoro, nella formazione e tutela della piccola proprietà devono tendere alla elevazione delle classi lavoratrici, mentre l'incremento delle forze economiche del Paese, l'aumento della produzione, la salda ed equa sistemazione dei regimi doganali, la riforma tributaria, lo sviluppo della marina mercantile, la soluzione del problema del Mezzogiorno, la colonizzazione interna del latifondo, la riorganizzazione scolastica e la lotta contro l'analfabetismo varranno a far superare la crisi del dopo-guerra e a tesoreggiare i frutti legittimi e auspicati della vittoria.
Ci presentiamo nella vita politica con la nostra bandiera morale e sociale, inspirandoci ai saldi principii del Cristianesimo che consacrò la grande missione civilizzatrice dell'Italia; missione che anche oggi, nel nuovo assetto dei popoli, deve rifulgere di fronte ai tentativi di nuovi imperialismi di fronte a sconvolgimenti anarchici di grandi Imperi caduti, di fronte a democrazie socialiste che tentano la materializzazione di ogni identità, di fronte a vecchi liberalismi settari, che nella forza dell'organismo statale centralizzato resistono alle nuove correnti affrancatrici.
A tutti gli uomini moralmente liberi e socialmente evoluti, a quanti nell'amore alla patria sanno congiungere il giusto senso dei diritti e degl'interessi nazionali con un sano internazionalismo, a quanti apprezzano e rispettano le virtù morali del nostro popolo, a nome del Partito Popolare Italiano facciamo appello e domandiamo l'adesione al nostro Programma.
Roma, lì 18 gennaio 1919

07 aprile 2009

06 aprile 2009

De Amicis e quel centenario VOLUTAMENTE dimenticato


A proposito del "centenario dimenticato" di De Amicis, Silvestro Gambi ha pubblicato sull'Avanti!, edizione on line, del 9 febbraio scorso un significativo commento.
Dopo aver rilevato la dimenticanza, il giornalista si sofferma sul carattere gravemente sospetto di questa smemorataggine. E continua osservando che per la "sua caratteristica sensibilità umana e sociale, che non mancava di tradurre nei propri scritti, De Amicis ebbe già all’epoca qualche tenera frecciata da Giosuè Carducci “Edmondo da i languori/il capitan cortese” e alcune distratte ma acuminate censure da Antonio Gramsci. Tuttavia per tre quarti di secolo la sua opera più nota, “Cuore”, rimase una fortezza letteraria troppo amata dagli innumerevoli lettori per poter essere attaccata con qualche possibilità di successo. Bisogna dunque attendere gli anni Sessanta perché le armate più agguerrite della cultura del tempo finalmente riescano a radunare forze adeguate per muovere all’assalto di “Cuore” e del suo autore. Da Arbasino a Faeti a Umberto Eco. Ed è quest’ultimo in particolare che officerà quello che, all’epoca, era una specie di rito religioso: “la dissacrazione”. In “Diario Minimo”, in un primo tempo rubrica sulla rivista letteraria “il Verri”, poi volume autonomo per i tipi di Mondadori, pubblicherà un memorabile “Elogio di Franti”. Il cattivissimo Franti viene così elevato a eroe positivo, l’unico di tutto il romanzo che, per il resto, trasuda di stucchevole bontà, di noioso senso del dovere, di solidarietà umana, ma non di classe, di rispetto delle istituzioni, all’epoca - orrore! - monarchiche. Un personaggio positivo dunque, l’elogiato Franti, perché fuori dal coro, non omologato alla cultura dominante, anticonformista: Franti ride di fronte alle scene toccanti che commuovono i suoi compagni, ride ai funerali del re e con il riso manifesta la sua opposizione ai valori dei suoi compagni, la sua estraneità a quel modello di cultura. In questo senso, secondo Eco, Franti è, a dispetto del suo autore De Amicis, una specie di prototipo del rivoluzionario che tanto piacerà negli incombenti anni Settanta del secolo scorso. Chi ha memoria dei quegli anni ricorderà come persino il genere spaghetti western, il western all’italiana, era tessuto su una trama di rivolta di classe, tra l’altro molto sanguinaria più ancora che sanguinosa. Pareva quasi che, dovendo culturalmente preparare i giovani dell’ormai prossimo Movimento Studentesco a evolversi in Potere Operaio, in Lotta Continua, che infine trasmutarono nelle degenerazioni della lotta armata, si facesse a gara nel proporre nuovi e più adeguati modelli. Il resto, come ben sappiamo, fu scritto col sangue. A giudicare dall’attualità della grottesca vicenda dell’estradizione di Cesare Battisti, si può dire che tale dibattito sia ancora vivo e vegeto, certamente in Francia fra gli intellettuali, ma in fondo anche qui da noi, per tacer del Brasile. Comunque Franti, a ben vedere, come modello di malvagità non è proprio il massimo, tuttavia è sufficiente, appena sufficiente, per cominciare a invertire una tendenza, ma è quanto basta. Un po’ come “Lettera a una professoressa”, quasi incontestabile nel sentimento e pur tuttavia caposaldo di quella demolizione del valore del merito individuale che ha massacrato la nostra scuola, quasi tutta, e un bel pezzo di società. E guai a dirlo ancora oggi! Quanto a “Cuore” il libro verrà espulso dalla scuola e messo all’indice dagli intellettuali militanti per lasciare il passo a nuovi eroi e nuovi modelli: la suggestiva analisi di Marx, la determinazione ostinata di Lenin, l’esotica semplicità di Mao Tse Tung, il torbido fascino di Stalin e l’indimenticabile sfortunato Che Guevara, romantico fucilatore di borghesi più o meno compromessi con il regime del dittatore Fulgenzio Batista. Nessun dramma: oggi che queste idee sono ormai, come si dice, vintage, interessano solo pochi ostinati collezionisti, e che il mitico sentiero di Ho Chi Min è un’autostrada a otto corsie, si può forse, con circospezione magari, cogliendo l’occasione o il pretesto del centenario dimenticato, riprendere in mano “Cuore” e approfittare per dare uno sguardo più approfondito o anche solo meno pregiudiziale anche al resto dell’opera di De Amicis.Se un centenario vale, almeno in teoria, di più di tanti anniversari intermedi, ecco dunque che proprio per questo il centesimo della morte può, se lo si voglia, chi scrive lo ritiene utile e addirittura necessario, offrire un’occasione se non per rivedere alcuni giudizi viziati, anche perché geneticamente sbocciati in epoca sospetta, almeno per ricollocare la vicenda deamicisiana, depurata da improprie e pretestuose polemiche, peraltro ormai fin troppo datate, nel suo senso più corretto dal punto di vista sociale, storico e, infine, anche da quello più strettamente letterario. E ciò facendo ci si accorgerà che si può onorevolmente e legittimamente ricollocare anche Edmondo De Amicis nello scaffale giusto della letteratura italiana dell’ottocento, dove non sfigura affatto. Perché, che lo si voglia o no, il “Libro Cuore”, come veniva chiamato, è stato letto da intere generazioni di ragazzi italiani dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Sessanta e ha inevitabilmente lasciato una traccia in moltissimi di loro, che è come dire in tutti noi. E se oggi si ha il coraggio di riprenderlo in mano ci si ritrova, con facilità e commozione, qualche radice dimenticata della nostra vita e un po’ di sorprendente attualità: come accade nell’episodio “Un tratto generoso” nel quale il povero Crossi, che ha un braccio paralizzato, viene pesantemente tormentato da quattro suoi compagni di classe capeggiati dal “rivoluzionario Franti” che laidamente ne mima la caricatura della madre erbivendola. Oggi lo si definirebbe un episodio di bullismo. Non disponiamo ovviamente del filmato da telefonino su You Tube, ma la descrizione che dell’episodio fa De Amicis non ha nulla da invidiare a questa attualissima tecnologia. E ci piace molto anche il finale di De Amicis, quello che ci piacerebbe fosse a conclusione di ogni episodio di bullismo nostrano: qualcuno degli altri compagni che prende le difese della vittima e un’autorità scolastica con tanta superiorità culturale e così forte autorevolezza da rendere impossibile il ripetersi di simili episodi.Bisogna ammettere in ogni caso che la lettura attuale di “Cuore” non è immediata come quella di “Pinocchio”, che del resto, è un fumetto in prosa quando ancora non esistevano i fumetti disegnati, e la desuetudine alla semplicità e alla banalità dei valori positivi a base dei rapporti umani e dell’identità culturale (guai a dire nazionale, ma si potrebbe anche in fondo) ne intonano, letto oggi, una certa uggiosità. Né potrebbe essere diversamente visto che il più cattivo dei personaggi, il cattivo dei cattivi, Franti, è, con le debite scuse, sì e no “un discolo”. Rispetto a Pinocchio, che sembra non necessitare di urgente ricollocazione da parte di Umberto Eco, Franti almeno non manda in galera il babbo e non ammazza a martellate un innocuo quanto innocente grillo; se è pur vero che durante la realizzazione del progetto di riorganizzazione rivoluzionaria della Cambogia ad opera di Pol Pot e dei Kmer Rossi, un sacco di padri finirono giustiziati su indicazione di inconsapevoli figlioli. Come pure in Germania durante la notte nazista. Non vogliamo certo fare paragoni fra i due regimi. Non sarebbe politically correct, essendo del tutto uguali. Prendiamo purtroppo atto che ormai qualcosa è cambiato e nelle storie veicolate oggi dai vari media, da film, tv, videogiochi, il cattivo ha il ruolo centrale di protagonista reale mentre il buono altro non è che un suo sussidiario, il complementare necessario per reggere la storia. Tanto fece scalpore, alcuni anni indietro, il risultato di un’indagine a questionario fra giovanissimi spettatori della versione restaurata di “Biancaneve” di Walt Disney che assegnava quasi unanimemente la qualifica di personaggio più simpatico alla strega malvagia. A farla breve, rileggendo “Cuore” ci si trova a fare i conti, faccia a faccia, con la propria coscienza, con il dover ammettere che moltissimi dei famosi valori dei quali si lamenta la scomparsa a ogni piè sospinto, o quanto meno l’appannamento, sono quelli che caratterizzano i personaggi di questo libro. Sarà noioso, ma è così: altruismo, rispetto per le istituzioni, generosità, disinteresse personale, orgoglio di appartenenza, onestà. Possiamo anche non commuoverci ma forse rifletterci non sarebbe del tutto inutile. Per correttezza, e per non risultarne troppo improvvisamente turbati, è bene sapere che in “Cuore” si incontrano, tra i personaggi comuni, persino dei genitori che - cosa incredibile! - parlano ai loro figli: da genitori, non da compagni di gioco, come prescrive oggi un approccio, come dire, pedagogicamente adeguato. Fin qui il nostro rapporto con questa opera specifica che è di tipo personale e intimo e non necessariamente di valore e valenza letterarie, anche se ci sarebbe da discuterne. E forse potrebbe scaturirne anche qualcosa di buono, anche senza rimettere in discussione l’“Elogio di Franti”. Di ben diversa portata, invece, l’anniversario dell’autore, che in opere meno conosciute, ci può essere utile a confrontare esperienze e note di viaggio di fine Ottocento con le modalità turistiche del mordi e fuggi odierno, gestito da volonterose agenzie esperte in viaggi lampo, in alberghi tutti uguali e in monumenti che paiono più set cinematografici che non depositi di storia e di cultura. I titoli: “Spagna”, “Ricordi di Londra”, “Olanda”, “Marocco”, “Ricordi di Parigi”, e lo straordinario “Costantinopoli”. E perché non sfogliare anche quel “Amore e Ginnastica”, romanzo ironico più che comico, come viene comunemente classificato, un’anomalia curiosa per un autore come De Amicis, e opera apprezzata da un letterato del calibro di Italo Calvino. Di De Amicis, in un anniversario degno, si possono rivalorizzare le testimonianze di modi di essere e vedere del nascente movimento operaio e socialista dal punto di vista descrittivo di ambiente, senza il filtro polarizzatore della visione “politica” del tempo. Così “Sull’Oceano”, sulla condizione degli emigranti; “Il romanzo di un maestro”, “Maestrina degli operai”, e “La carrozza di tutti”. E infine un ragionamento sulla lingua, in un Paese da pochissimo riaggregato a livello nazionale e che non aveva nemmeno una lingua comune con il suo novanta per cento di analfabeti. Argomento questo sul quale De Amicis interviene con l’opera “L’idioma gentile”, nella quale critica la trascuratezza dell’insegnamento dell’italiano nella scuola, incrociando i ferri nientemeno che con Benedetto Croce. Stravagante ci appare oggi l’appunto, che questi rivolge proprio a questa specifica considerazione del De Amicis: “Il possesso dell’arsenale degli utensili linguistici premessa indispensabile al parlare e allo scrivere un corretto italiano”, e cioè che non si può considerare la lingua “un utensile”. In fondo questo problema si pone, sia pure su questioni e con modalità diverse, un po’ in tutta l’opera di De Amicis scrittore, nel quale il temperamento prevale su ogni altra caratteristica. Va comunque riconosciuto il merito a “L’idioma gentile” di aver riaperto ai primi del Novecento una questione che, da Alessandro Manzoni, necessitava, dopo mezzo secolo di evoluzione, ed è il mezzo secolo dell’unificazione del Paese, di essere per lo meno aggiornata. E si può infine concludere il nostro excursus anche con un passaggio sulla sua prima opera “La vita militare”, una raccolta di bozzetti e temi sulla propria esperienza militare. Egli tra l’altro, da militare di carriera, prese parte alla battaglia di Custoza nella terza guerra di Indipendenza col grado di luogotenente.Curioso no? In un autore così poco considerato dalle corti islamiche dei benestanti e scrupolosi intellettuali nostrani, trovare tanta ironica critica dell’istituzione militare. Ma in fondo, bisogna ammetterlo, tutto questo è troppo per un centenario solo, meglio un centenario dimenticato, meglio un anniversario smarrito.".

Edmondo De Amicis: un centenario dimenticato.


Descrivendo lo stile letterario del Sindaco Basile, si è usato il termine "deamicisiano" (anche intermini visivi Basile ricordava De Amicis: grandi baffi, la lobbia......).
E' bene dire subito che il senso di tale parola per noi non è deteriore; è semmai un modo - oggi sicuramente un po' datato - di esprimersi. Ma su questo si ritornerà. Ciò che questo termine ha fatto venire alla memoria, invece, è una cosa a nostro parere importante: il centenario della scomparasa dello scrittore. Un centenario dimenticato; lasciato cadere in un oblìo che non ci piace. Vogliamo ricordalo noi, sperando che anche altri assumano le opportune iniziative. Ad Alessandria gli è dedicata una via nel quartiere Cristo e le scuole elementari di piazza Vittorio Veneto.

Scrittore, giornalista e saggista, Emondo De Amicis era nato ad Oneglia (Imperia), il 21 ottobre 1846.
È soprattutto noto per aver scritto il romanzo Cuore, uno dei testi più popolari della letteratura italiana per ragazzi, insieme a "Pinocchio" di Carlo Collodi.
De Amicis frequenta le scuole elementari e media a Cuneo, ma si trasferisce con la famiglia a Torino per il liceo. Appena compiuti sedici anni, decide di entrare nell'Accademia militare di Modena, dove diventa ufficiale. L’idea della vita militare come metodo di educazione positivo, come cammino dell’individuo verso l’integrità ed il controllo di sé, rimarrà sempre assai viva in De Amicis, e questi stessi concetti affioreranno a più riprese nella sua opera.
Durante la terza guerra d’indipendenza, De Amicis, come luogotenente, partecipa alla seconda battaglia di Custoza del 24 giugno 1866, durante la quale l’esercito italiano, comandato dai generali Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini, nonostante la superiorità numerica, è sconfitto dalle truppe austriache al comando dell’arciduca Alberto d’Asburgo ed è costretto a ripiegare oltre il Mincio. Questa sconfitta, unita all’incapacità dei comandati di gestire l’alto numero di soldati, spinge De Amicis a lasciare definitivamente l’esercito. Nel 1870 è a Roma, tra gli autori della Breccia di Porta Pia.
Non abbandona, invece, lo spirito patriottico, soprattutto nel periodo in cui si stava formando l’unità d’Italia. Durante la sua permanenza nell’esercito, inizia a descrivere con acutezza e curiosità scene positive della vita militare. Mentre si trova a Firenze per servizio nell’esercito, comincia a scrivere sui temi del patriottismo e sulla sua personale esperienza una serie di bozzetti, poi riuniti nella raccolta “La vita militare” del 1868, pubblicati sull’organo del ministero della Guerra, L’Italia militare, di cui era direttore. I suoi racconti riscuotono un notevole successo. Appena lascia l’esercito, De Amicis diventa inviato per la Nazione di Firenze. In questo periodo si intensificano le sue corrispondenze di viaggio dalla Spagna, di Londra, dell’Olanda, dal Marocco, da Costantinopoli e da Parigi, raccolti poi in volumi, molto letti e molto apprezzati.
Già durante il 1880, però, De Amicis inizia a ipotizzare un libro fatto con il cuore, destinato ai ragazzi, in particolare a quelli poveri. Il 17 ottobre 1886, primo giorno di scuola, l'editore Treves di Milano pubblica “Cuore”, che da subito ha un incredibile successo, tanto che in pochi mesi si superarono le quaranta edizioni, oltre alle traduzioni in decine di lingue. Il volume è costruito sotto forma di un diario del piccolo Enrico Bottini, di una facoltosa famiglia borghese, durante l’anno scolastico 1881-82, che a Torino frequenta la terza elementare.
Innanzitutto è interessante la narrazione diaristica che consente all'autore di narrare dalla parte dei piccoli lettori adottandone la prospettiva. L'Enrico, uno scolaro di una quarta elementare è il narratore intradiegetico (dentro la fabula) di primo grado. C'è anche un narratore extradiegetico di secondo grado, il maestro Perboni che ogni mese racconta ai ragazzi una storia contenente un insegnamento.
Nella narrazione, che va da ottobre a luglio, si intrecciano i commenti e le lettere degli adulti (il padre, la madre e la sorella di Enrico), oltre ai nove temi che il maestro detta ogni mese agli scolari, che propongono, di volta in volta, vicende esemplificative di bontà, coraggio, patriottismo e dedizione alla famiglia: “La piccola vedetta lombarda”, “Il piccolo scrivano fiorentino”, “Il patriota padovano”, “L’infermiere di Tata”, “Sangue romagnolo”, “Valore civile”,“ Dagli Appennini alle Ande”, “Naufragio”, “Il tamburino sardo”.

Anche dalle descrizioni del piccolo Enrico esce fuori un ampio spettro di umanità, una piccola galleria di fatti e persone, sempre carichi di un forte valore pedagogico. “Il libro Cuore”, sebbene sottolinei la differenza tra le classi sociali, esorta anche a rispettare la dignità umana e spinge verso una collaborazione tra tutti gli strati della vita civile. Nei racconti del ragazzo, i compagni di classe sembrano interpretare ognuno un “tipo” di persona, una caratterizzazione e un esempio, dal teppista e irruento Franti, al buon cuore di Garrone fino al superbo e snob Nobis. Scevri di valori religiosi, secondo un’ottica laica e risorgimentale, gli esempi del libro Cuore hanno l’esplicito proponimento di dare una lezione di vita: senso del dovere, del sacrificio e dell’impegno nello studio tanto quanto nel lavoro, rispetto della dignità altrui, patriottismo e il senso di appartenenza ad un unico organismo nazionale.

Quindi, partendo dal microcosmo (una classe di scuola municipale), passa in rassegna una società intera. Come scrive Lucio Villari, “i rapporti di classe, di produzione culturale, il costume e i comportamenti individuali e collettivi, sono nel libro inventato, una verità simmetrica del reale“.
La prospettiva è quella di un intellettuale piccolo borghese che da lì a poco aderirà al socialismo.
De Amicis fa sua la parola d'ordine di Massimo D'Azeglio che “fatta l'Italia, bisognava fare gli italiani“. Quale Italia e quale idea di nazione viene fuori dalle pagine di Cuore? Un società interclassista (nella classe di Enrico accanto a ragazzi della buona società, ci sono figli di proletari), la funzione civile della scuola pubblica, l'esaltazione del mondo del lavoro, la denuncia delle morti bianche, il Risorgimento, che sebbene ancora recente, è già epopea e collante di un'intera penisola.
E' inutile accusare De Amicis di ignorare la lotta di classe, di non percepire che il Risorgimento assunse anche i caratteri di “conquista régia” ed in certi aspetti addirittura di piemontesizzazione dell'Italia. Lo scrittore è figlio del proprio tempo, è espressione della parte migliore della borghesia italiana e nello stesso tempo di un socialismo che in quegli anni coniugava gli ideali risorgimentali e la filantropia.

Negli anni, il libro ha ricevuto moltissimo apprezzamento dai giovani e dagli adulti, almeno fino agli anni Cinquanta del nostro secolo. Agli occhi moderni, “Cuore” appare come una raccolta di tipizzazioni sdolcinate e fuori dalla nostra realtà, e l’aggettivo “deamicisiano” indica una rappresentazione smielata della realtà, piena di esempi di virtù e vizi fin troppo evidenti.

Sembra quasi ovvio il passaggio di De Amicis al socialismo intorno al 1890, fino all’adesione nel 1986. Nell’ambito politico, lo scrittore si fa portavoce dell’atteggiamento filantropico della borghesia illuminata del periodo. Il nuovo interesse per le politiche sociali è visibile nelle sue opere successive, in cui presta molta attenzione alle difficili condizioni delle fasce più povere, e dove sono completamente superate le idee nazionalistiche che avevano animato Cuore. Pubblica quindi “Sull'oceano” del 1889, che parla delle condizione dei poverissimi emigranti italiani e “Il romanzo di un maestro”, nell’anno successivo. Inoltre scrive per “Il grido del popolo” di Torino svariati articoli di ispirazione socialista, poi raccolti nel libro Questione sociale del 1894. Tra gli ultimi volumi pubblicati, L'idioma gentile (1905), Ricordi d'un viaggio in Sicilia (1908), Nuovi ritratti letterari e artistici (1908).
De Amicis morì a Bordighera (Imperia), l’11 marzo 1908.
I suoi ultimi anni sono stati rattristati dalla morte della madre, a cui era molto legato, e dai contrasti con la moglie Teresa Boassi, culminati nel suicidio del figlio ventiduenne Furio, disperato a causa della situazione familiare ormai infernale. Proprio alla vita scolastica dei figli Ugo e Furio De Amicis si era ispirato per scrivere "Cuore".
Il suo vasto archivio ricco di autografi, lettere, opere a stampa, materiale iconografico e varia oggettistica, fu donato alla Biblioteca civica di Bordighera nel 1970 dalla signora Vittoria Bonifetti, vedova dell’avv. Ugo De Amicis, secondo figlio di Edmondo, morto nel 1962 lasciando erede la moglie con l' impegno di destinare alla sua morte ogni bene di famiglia al Comune di Torino per la costruzione di borse di studio per bambini poveri.

05 aprile 2009

Non potete essere semplici e codardi spettatori

La nostra iniziativa su Basile, ha provocato molti commenti che ci hanno onorato. Pensiamo che sia necessario approfondire la conoscenza di Basile attraverso i suoi scritti. Ne proponiamo uno, a nostro avviso il più significativo: le parole conclusive del capitolo introduttivo ("Dalle origini") di "La Città mia". Sono espressioni che vanno ruminate con calma, al di là dello stile al quale non siamo più abituati, dei motivi "deamicisiani" e delle venature di una cultura forse un po' troppo positivista. Quello che conta sono i valori, è l'indicazione di una "prospettiva alta" di impegno civile vissuta ed unita all'amore per la propria città, che egli non esitò a definire "sua", tanto si sentiva legato ad essa ed ai suoi abitanti.
Dopo aver raccontato la storia della città fino alle ultime vicende della guerra e della Liberazione alle quali aveva partecipato, così illustra la ricostruzione.

"E ritornò al lavoro come prima e come sempre: si era compiuto un dovere che aveva a sè giurato, nella pacatezza del gesto e nella maestosità della vittoria, conscia della propria forza e del suo diritto di popolo libero, avvinto dal fascino del suo stemma municipale: Deprimit elatos, levat Alexandria stratos: Alessandria deprime i potenti e innalza gli umili.
Così, ragazzi miei, (n.d.r.: "La Città mia" è scritto per gli alunni delle elementari), avrete capito quanto è lenta e faticosa la via della libertà e del progresso umano. Dallo schiavo della gleba, che si poteva vendere come il bue o un sacco di patate, al senso libero dell'uomo e del suo onesto procedere di oggi; dalla prima prepotenza cieca del più forte e del più ricco, fino alla quasi raggiunta emancipazione del tempo moderno, vi sono stati i sentieri di spine, i grovigli creati dai tristi, uniti alla malvagità dei simili loro. E tutto questo mentre vi fu Chi disse: "Amatevi come fratelli; e non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi!" (n.d.r., cfr Vangelo: Mt 7,12; Lc 6,31; Gv 13,34 e S. Paolo: Rom 13,9 e Gal 5,14)
Eppure, vi è ancora oggi chi inzuppa la terra comune, col sangue dell'uomo, senza rabbrividire e senza rimorso.
Ragazzi, amatela questa vostra città che dallo strame di paglia è assurta ad una luminosità più bella e più viva. Amatela per le culle dei fratellini vostri e per le fredde tombe di chi sorrise un tempo nella vostra casa.
Amatele intensamente queste vie sonanti di nomi di gloria e di ricordi di un passato fortunoso.
Però non vi chiudete in questo egoismo buono che a voi, piccoli, sembra oggi d'oro.
Sì: amate chi vi vuol bene, amate la città dove foste istruiti ed educati. Ma amate anche la casa degli altri, anche se in essa si parla una lingua che a voi è strana e sconosciuta; amatela anche se in essa vi sono i più fortunati di voi; amatela anche se in essa vi sono genti di pelle di colore diverso, con usi, costumi, pensamenti, gesti diversi dai vostri.
Imparàtelo, ragazzi mei: questo comprendersi a vicenda; questo guardarsi amichevolmente negli occhi; questo sentir battere sereno un cuore vicino al vostro cuore che non deve avere rancori, nè odii, nè vendette da fare, nè rappresaglie da compiere; amate tutto questo, perchè fa parte della civiltà umana, della gloria dell'uomo e del mondo intero; perchè dobbiamo creare una fioritura nuova di luce e di colori; perchè dobbiamo profondamente pensare che, vicini o lontanissimi, vi sono altri ragazzi che giocano come voi, altre mamme che cantano anch'esse le ninna-nanne, altri padri nell'affanno e nelle morse di un duro lavoro, altri nonni che agonizzano, dopo aver dato agli altri il meglio della vita loro.
Splenda, oggi una ricchezza nuova per tuttti!
Ragazzi miei, voi non potete essere semplici e codardi spettatori ed estraniarvi, corrucciati ed inoperosi, da questa lotta, la quale costituisce appunto il progresso di una umanità rifatta."

02 aprile 2009

Nicola Basile, un "Padre della Comunità alessandrina".

La prima iniziativa che abbiamo voluto realizzare ha riguardato un personaggio molto caro agli alessandrini: il maestro Nicola Basile, Sindaco di Alessandria dal 1947 al 1964, di cui quest'anno ricorre il trentesimo anniversario della scomparsa.
Non ci si vuole qui dilungare nel parlare di Lui, molto bene lo fa' il Sindaco Fabbio ogniqualvolta lo cita nei suoi interventi come esempio di probità, correttezza, di esemplare amministratore. Ciò che ancora oggi rileva - al di là degli aspetti più propriamente politici dell'azione amministrativa di Basile, frutto della contingenza storica del momento - è la modalità con la quale Basile esercitò le sue funzioni di Primo Cittadino. Il saper rappresentare tutta la Città(raccontava la figlia Mirka che egli amava ripetere che ogni volta che entrava il Municipio per andare in ufficio, lasciava ai piedi dello scalone la tessera del suo partito), il saper essere in costante dialogo con i cittadini al di là ed oltre l'ufficialità, il contatto umano, il rispetto per tutti anche per gli avversari più estremi, il mai personalizzare la politica, l'amare la comunità di cui si è parte facendosi dovere di conoscerne, valorizzare e promuovere la storia, le tradizioni, il linguaggio, cioè l'ethos del nostro popolo. Senza esagerare, Basile per Alessandria è un "mito civico", un vero "Padre della Patria" o meglio, diremmo, un "Padre della Comunità alessandrina".
Molto bella la biografia curata da Alberto Ballerino nel volume “Il Palazzo Comunale di Alessandria”, edita l'anno scorso a cura del nostro Comune.
Queste valutazioni del Circolo hanno indotto il nostro Socio e Consigliere e Capogruppo in Consiglio comunale Ezio Sestini ad indirizzare una richiesta al Sindaco Fabbio in cui, dopo aver osservato che la memoria di Basile è ancora costante negli alessandrini, rileva che: "il più bel “monumento” che gli alessandrini hanno eretto al Sindaco Basile è la scritta sul muro delle Scuole Elementari “G. Galilei” (lato di corso XX Settembre) ancora oggi esistente: "vota Basile". Considerando che Basile fu candidato per l’ultima volta - mi pare - nel 1960, quella scritta è lì da 49 (quarantanove) anni."
"Sono davvero sicuro - prosegue Sestini nella lettera - che Ella, signor Sindaco, saprà trovare i modi e proporre le iniziative più opportune perché la Civica Amministrazione ricordi ai cittadini il Sindaco al quale Alessandria deve la sua ricostruzione, non solo materiale, dopo la guerra. E con Lui tutta quella classe dirigente che ha insegnato a generazioni di alessandrini il “senso alto” della politica."
Il Sindaco ha subito disposto l'immediata protezione della scritta mediante una lastra di plexiglass nell'attesa di poterla eventualmente restaurare, con un adeguato consolidamento.