30 giugno 2009

Sciascia e il moralismo: moralismo inascoltato.


Non sempre Sgarbi ci piace, soprattutto per i suoi eccessi. Ma questo intervento in occasione dei ventanni dalla morte di Leonardo Sciascia su "Il Giornale" di oggi, è davvero bello.

Capiva bene Leonardo Sciascia, più di ogni altro e in tempi in cui non si era ancora concepita la scellerata illusione di affidare alla magistratura la soluzione dei problemi della società, che etica e politica non possono stare insieme. In questo, egli era stato il miglior lettore di Benedetto Croce, nemico di ogni fantomatico «partito degli onesti». Per Croce «il vero politico onesto è il politico capace».
Oggi che, come mai prima, la politica è umiliata fino a vedere rivoltato questo principio nella esaltazione dell’assoluta incapacità, con l’aggravante di una millantata onestà, per il puro tornaconto personale, favorito dalla identificazione di nemici presunti disonesti, in un intreccio inestricabile di finzioni (di cui la tragicomica maschera è Di Pietro con i suoi familiari), Sciascia sarebbe disorientato e impotente.
È morto vent’anni fa, prima di Tangentopoli e del processo Andreotti, che lo avrebbero visto «implacabile osservatore», come si annunciò nel profetico libro A futura memoria. Con incredibile anticipazione aveva individuato il fenomeno, oggi inarrestabile, dei «professionisti dell’antimafia», applicandolo a personalità di incomparabile dignità e decoro rispetto ai loro eredi; e aveva già delimitato i confini della metastasi giudiziaria, tra incriminazioni arbitrarie e intercettazioni, con questa semplice considerazione: «Io simpatizzo con il poliziotto, e cioè con l’investigatore. Che non è l’Inquisitore, ma uno che cerca la verità di fatto, al di là dei pregiudizi».
Oggi la verità di fatto non esiste più, i pregiudizi hanno travolto la verità. Io sono vissuto e sono stato politicamente attivo negli anni immediatamente successivi alla morte di Sciascia e ho dovuto moltiplicare all’inverosimile il suo metodo, ispirandomi al suo insegnamento.
Nessun intellettuale (parola a lui sgradita) mi è sembrato più lucido e mi è stato di maggior conforto di Sciascia; ed egli era a tal punto consapevole del primato della ragione da porre come epigrafe del suo A futura memoria un pensiero di Georges Bernanos: «Preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli».
Oggi, che è tempo di inganni, Sciascia potrebbe sembrare uno scrittore inattuale, incapace di illudersi e indisponibile a illudere. Perché, invece, appare più di ogni altro, più di Moravia, più di Pasolini (e di altri scrittori mossi da una fortissima passione civile) attuale? Perché, come Guicciardini, Sciascia vede l’uomo com’è, non come lo vorrebbe, o come se lo figurano utopisti e visionari, parlando in nome di Dio o di un bene astratto e irraggiungibile.
Per Sciascia l’uomo è l’uomo di Montaigne con i suoi limiti e i suoi dubbi, senza illusioni. Così poteva dire con disarmata onestà e senza negare agli uomini la speranza: «Palermo mi appare irredimibile, nella violenza e nel sangue. Commisurata alla vita che mi resta, mi pare una definizione esatta. Ma non può e non deve restare esatta per sempre».
Mi colpisce leggere questa affermazione di Sciascia, credo dell’ultimo tempo della sua vita, se appare registrata su Il Resto del Carlino del 21 novembre 1989, perché negli stessi giorni, ospite tra le prime volte al Maurizio Costanzo Show, mi trovai a dire, e non certo per cinismo o disillusione: «Per Palermo non c’è speranza». Sono passati vent’anni, e mi trovo incredibilmente a essere il sindaco di Salemi, in una Sicilia che non mi è consentito considerare irredimibile come vorrebbero molti «professionisti dell’antimafia».
Si può dire che eserciti le mie funzioni con lo stesso spirito di Sciascia, ricordando che, diversamente da altri, egli accettò di «sporcarsi le mani con la politica», prima consigliere del Partito comunista al comune di Palermo, poi deputato radicale. Nessuna contraddizione nel tentativo estremo di non lasciare niente di intentato, perfino mettendosi in gioco direttamente.
Da troppo tempo si pensa che la soluzione dei problemi possa essere affidata a mai realizzate riforme. Non è così. Sciascia lo aveva capito bene, e per questo aveva accettato il coinvolgimento politico. «Le riforme, che volete che vi dica? Io ci credo poco, perché la prima riforma deve partire da dentro di noi: se non c’è questo, è inutile fare riforme, anzi bisogna invocare che non si facciano, perché quello che si è fatto, in materia di riforme, ha portato le cose al peggio».
Parole profetiche. Il declino della scuola e della giustizia lo conferma in modo sconvolgente: nessuna riforma della scuola vale un buon insegnante. E una legge sbagliata può essere corretta da un buon giudice, come una legge giusta può essere male applicata da un cattivo giudice.
Sciascia esprime una fede assoluta nell’uomo. Così appare radicale il suo sconcerto per la scelta del governo di non trattare con le Brigate rosse in occasione del rapimento di Aldo Moro. Egli afferma, nella relazione di minoranza alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani: «Non si è fatto alcun credito, insomma, all’intelligenza di Moro: da valutarla quanto meno superiore a quella dei suoi carcerieri. Si poteva, senza venir meno a “posizioni di fermezza”, continuare a dialogare con lui: sia pubblicamente - nell’opporre ragioni alle sue, che erano ragioni e non farneticazioni - sia segretamente, cercando nelle sue lettere quei messaggi che era probabile e possibile nascondessero».
Nella posizione di Sciascia si rappresenta lo sforzo vano dell’uomo con il suo pensiero e la sua ragione davanti alla ragion di Stato che, implacabilmente, ed esemplarmente, in quella occasione prevalse. Sciascia non avrebbe potuto prevedere che allo stesso Andreotti, che più di ogni altro avrebbe interpretato quella ragion di Stato, sarebbe toccato di essere vittima di un processo non delle Brigate rosse, ma di un tribunale del popolo mascherato da giustizia istituzionale.
E possiamo veramente dolerci che, dopo L’affaire Moro, Sciascia non abbia avuto il tempo e la vita di scrivere un libro sul processo Andreotti.
Avrebbe continuato a muoversi nelle appassionanti antinomie del potere che, in diverso modo, hanno umiliato i potenti trasformandoli da deputati a imputati senza essere né i soli colpevoli, né, forse, colpevoli. Aveva osservato con acutezza, Alberto Moravia, che Sciascia partiva dalla chiarezza per arrivare al mistero, mentre bisognerebbe partire dal mistero per arrivare alla chiarezza.
Ma mistero, come osserva Vertone, non è confusione, quella «in cui sguazza gran parte della cultura italiana»: deriva da questa falsa chiarezza iniziale l’uso spesso millantatorio che gli intellettuali italiani si sono abituati a fare dei cosiddetti ideali, quella particolare forma di disimpegno civile che è passata nella nostra storia sotto il termine, opposto, di impegno.
Il quale è consentito e consiste nello scegliere una volta per tutte il bene, depositando una sigla, per poi disinteressarsi di tutto quel che avviene, senza cercare di capire, caso per caso, situazione per situazione. Parole profetiche, a distanza di vent’anni, nell’assistere all’impotenza dei dirigenti del Partito democratico davanti all’azione giudiziaria che, dopo troppi e interessati richiami alla «questione morale», li vede oggetto di una grottesca e irresponsabile persecuzione giudiziaria. Ancora manca Sciascia, e mancherebbe anche se ci fosse: i pochi di noi che hanno tentato di interpretarlo sono rimasti, più di lui, isolati e inascoltati
Mi accorgo solo ora di quanto la sua lezione non abbia condotto a riflettere sul rispetto della persona e sul riscatto della Sicilia da una maledizione senza speranza. Il 10 gennaio 1987 Sciascia scrisse per il Corriere della Sera l'articolo su «I professionisti dell’antimafia». Vi sosteneva che l’antimafia può diventare strumento di potere, anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. La risposta fu una condanna senza attenuanti, con l’obiettivo di confinare Sciascia «ai margini della società civile». Certo, caro Sciascia, vivere nella tranquillità bucolica delle campagne racalmutesi è cosa ben diversa che vivere nell’angoscia della probabile vendetta mafiosa. Certo, così vivendo si rischia molto meno: ma si diventa, a poco a poco, dei «quaquaraquà».
Il dogma non ammetteva discussione. Ma Sciascia non si lasciò intimidire: «Il coordinamento antimafia? A occhio e croce mi pare che coordini interessi politici e stupidità». E ancora: «Sulla lotta alla mafia si è costituito un potere che non tollera critiche». Sono parole che potrebbero essere dette oggi, nella perfetta indifferenza dell’antimafia agli stessi effetti dell’azione giudiziaria che, a quanto afferma il procuratore nazionale Pietro Grasso, ha ottenuto importanti risultati: «Cosa nostra pare oggi destrutturata... Secondo le mie informazioni sembra oggi che la Cupola, vecchia commissione che raggruppa le principali famiglie, non funzioni più. Tutti i suoi membri sono in carcere».
Anche questo aveva previsto Sciascia. In una intervista a Salvatore Parlagreco nelle Cronache Parlamentari Siciliane pubblicata nel dicembre 1989, Sciascia aveva affermato: «È diventato difficile dire la verità... e chi può descrivere la Sicilia così come è oggi? Si è sotto il ricatto del giudizio di una certa Sicilia. Nel momento in cui si tenta di raccontarla come vorresti, devi dare l’immagine di una Sicilia vera, si corre il rischio di passare dall’altra parte... intendo, dalla parte sbagliata».
E noi, piuttosto che illuderci e illudere, preferiamo stare con Sciascia dalla parte sbagliata.

25 giugno 2009

Ho vinto io.....no tu no....


Su "Il Liberale" questo commento all'ultimo voto amministrativo.

Prima di leggere qui, andatevi a leggere questo studio su Termometro Politico.

Una volta letto, riprendiamo il discorso: chi ha vinto queste elezioni?

Intanto, va detto che si parla di primo turno, dove i votanti sono stati molti di più.

Alle urne per rinnovare la provincia si sono recati oltre 18 milioni di cittadini, proprio come nel 2004 (18,4 contro 18,5 del 2004). Il che rende il dato politico assolutamente paragonabile.

Nel 2004 le forze che oggi compongono il PDL ottenevano il 27,27%, nel 2009 il 25,25%.
Nel 2004 le forze che oggi compongono il PD ottenevano il 30,19%, nel 2009 il 24,70%
L'MPA non esisteva e in questa tornata raccoglie oltre l'1%.
La Lega raddoppia passando dal 4,68% al 10,66%.
L'IDV quasi triplica, dal 2,48% al 6,11%.
UDC stabile intorno al 5,5%.
L'estrema sinistra dimezza dal 16% all'8% circa.

Il Centrodestra passa dal 38% al 47,5%
Il Centrosinistra passa dal 53% al 43,5%
L'UDC è conteggiata a parte fuori dagli schieramenti.

Il dato inequivocabile è che in 5 anni, in queste 62 province le forze di centrosinistra hanno perso 1.6-1.7 milioni di voti a favore di forze di centrodestra. Questo testimonia la crisi profonda della sinistra, tutta quanta, perchè vedere un Di Pietro gioire per un dato, buono, ma assolutamente inutile se il resto della compagine è allo sbando, è follia pura.

Dall'altra parte si può avere un umore diverso? Probabilmente si, ma non può sfuggire che laddove si è votato per le provinciali il PDL ha ottenuto una prestazione ridicola, peggiore persino del 2004 dove a livello nazionale FI e AN a stento raggiunsero il 30%. Questo significa che molti hanno votato PDL alle europee e qualcos'altro (per fortuna dello stesso schieramento) alle provinciali, segno che l'attaccamento al voto verso il PDL è ancora di là da venire.

Complimenti infine ai ragazzi di TP per la splendida analisi.

21 giugno 2009


Mercoledì 24 giugno p. v. alle ore 17,30

presso la Sala Convegni di Confindustria Alessandria (g.c.)
via Legnano 34, Alessandria

il Centro Studi M. Pannunzio - Sez. U. Rattazzi di Alessandria
il Circolo Sviluppo è Libertà di Alessandria
il Circolo di Studi Sociali di Alessandria

presenteranno il libro
Perché dobbiamo dirci cristiani
Il Liberalismo, L’Europa, L’Etica

di Marcello Pera

Interverranno: Aldo A. Mola e Pier Franco Quaglieni

Coordinerà: Piercarlo Fabbio, Sindaco di Alessandria.

Sarà presente l’autore.

20 giugno 2009

Eclisse della socialdemocrazia


“L'Occidentale” del 14 giugno ha pubblicato questa recensione di Michela Nacci del libro di G. Berta, "Eclisse della socialdemocrazia" (il Mulino, 2009; pp. 135; euro 10,00)

Scriveva Giuseppe Berta prima di questa tornata elettorale: “In Europa, la sinistra –o il centrosinistra, se si preferisce – è al suo minimo storico.
Priva di appeal come non è quasi mai stata. Dove è rimasta a lungo al governo, come nel Regno Unito, sembra sul punto di passare da una prospettiva di secca sconfitta a un’altra di débacle vera e propria. ”
I risultati di una settimana fa sembrano confermare in pieno le sue considerazioni. In questo libretto che raccoglie una serie di articoli scritti per la rivista “il Mulino”, Berta descrive in modo impietoso la crisi nella quale si trova la sinistra in tutta Europa, collega questa crisi alla “eclisse della socialdemocrazia” alla quale il suo pamphlet si intitola, identifica nell’America di Obama una speranza e un modello da seguire.
E’ molto efficace la descrizione che questo storico dell’epoca contemporanea da sempre molto attento all’economia compie della traiettoria seguita dalla sinistra nel Vecchio Mondo: un passaggio dal “capitalismo laburista” di cui parlava Joseph Schumpeter nel secondo dopoguerra alla “socialdemocrazia capitalista” di oggi. Che cosa indicano queste espressioni? Schumpeter indicava con “capitalismo laburista”, deprecandola, la scomparsa dal capitalismo del laissez-faire, dell’individualismo, dell’imprenditorialità aggressiva e perfino selvaggia che lo aveva caratterizzato agli inizi: il capitalismo si era arreso alle esigenze del pubblico, della regolazione statale, ed era divenuto “una grande macchina burocratica e spersonalizzata”. Una situazione che Berta descrive così: “Il nuovo assetto capitalistico, che s’era configurato dopo la seconda guerra mondiale, era perciò un ibrido: sulle fondamenta della più potente ed efficiente organizzazione economica che la società avesse mai messo a punto era cresciuta una superfetazione istituzionale che pretendeva di asservire la fabbrica della ricchezza a fini di equilibrio sociale che in fondo le erano avversi. ” Nel giudizio di Schumpeter, il socialismo non mirava a distruggere il capitalismo, ma a smussarne gli angoli e così a snaturarlo, “a sterilizzare ciò che restava dei suoi impulsi antiegualitari e magari anche antidemocratici”: si realizzava in questo modo, soprattutto nell’Inghilterra laburista, l’unione del capitalismo come sistema di produzione con il livellamento dei redditi e quindi con la diminuzione delle differenze di classe, con una maggiore uguaglianza nella società.
Oggi invece – sostiene ancora Berta – abbiamo da una parte un capitalismo che non assomiglia affatto a quello descritto da Schumpeter, un capitalismo che non è per niente livellatore delle differenze, e dall’altra un “laburismo impregnato di umori capitalistici, tanto da avere, esso sì, smarrito l’etica sociale che l’aveva distinto un tempo”, ovvero una “socialdemocrazia capitalistica”: “nell’epoca della globalizzazione, la socialdemocrazia al governo ha scoperto di dover aderire quasi plasticamente ai caratteri del capitalismo contemporaneo, abbandonando la pretesa di trasformarli. ” In effetti, nella Gran Bretagna dei governi laburisti degli ultimi anni, “la questione consiste nell’adattare la società al sistema economico, giudicato immodificabile”. Se dalla Gran Bretagna, che Berta sceglie come osservatorio privilegiato su quel che accade a sinistra, si passa all’Italia o ad altri paesi europei, la situazione si ripete con poche varianti.
Ciò che è scomparso all’interno della sinistra secondo Berta è il modello socialdemocratico: lamenta che oggi il capitalismo venga accettato così com’è senza neppure il tentativo di modificarne gli aspetti più palesemente sperequativi e generatori di differenze, così come viene accettata completamente la globalizzazione con tutti i suoi disastri. Semplicemente, nota l’autore, ci si arrovella sul modo in cui è possibile restare a galla, essere sempre più produttivi e di successo in un’economia la cui configurazione presente è considerata lo sfondo naturale, ovvio, dato una volta per sempre, dell’azione politica da svolgere. In Gran Bretagna il New Labour ha messo in soffitta “il collettivismo e il comunitarismo d’antan delle Unions”, si rivolge al singolo elettore considerato un atomo isolato dal resto della società, promette garanzie sociali che però non si collegano più in alcun modo al socialismo, si batte per l’accesso all’istruzione (vera frontiera sulla quale avvengono le lotte e le rivendicazioni della sinistra di oggi), chiede maggiore sicurezza, difesa dalla criminalità, stabilità sociale, in modo non molto diverso dalle forze politiche che si collocano in un’area di centrodestra. Nel frattempo “il messaggio politico è divenuto (...) compiutamente individualistico, al punto che organizzazioni collettive come i sindacati lasciano il compito della formazione (nella quale sembra tradursi oggi l’ideale dell’emancipazione) al governo. ” Dal lessico del New Labour britannico è scomparso ogni riferimento al socialismo: anche gli scarsi richiami della SPD tedesca a quella ideologia risultano solo verbali. Allo stesso modo, un governo socialista come quello spagnolo di Zapatero si differenzia da quello precedente di Aznar non per la politica economica o sociale, ma esclusivamente per il richiamo ai diritti civili e a una diversa politica estera. Anche nel centro-sinistra italiano, del resto, ogni riferimento al socialismo è scomparso ormai da tempo.
La descrizione di Berta è crudele e al tempo stesso efficace: mostra bene il passaggio avvenuto nella sinistra riformista da ideali di cambiamento della società all’accettazione dello status quo, dal piano della trasformazione al piano della conservazione di quel che esiste, dalla lotta al capitalismo alla difesa di esso in tutto e per tutto, salvo qualche miglioria che ne attenui gli effetti peggiori. Se la descrizione è acuta, non altrettanto convincente risulta la ricerca delle cause di questo passaggio; la proposta di una ripresa del modello socialdemocratico da parte della sinistra solleva poi alcuni dubbi.
Quali sono infatti le cause di questa situazione della sinistra? Berta parla di eclisse: della perdita da parte della sinistra di una ideologia, un modello di società, una prospettiva di mutamento dell’economia sulla quale si basa la società europea. Nelle sue pagine si trova la sensazione che la sinistra moderata europea si sia arresa all’esistente, abbia riconosciuto l’impossibilità di fuoriuscire dal capitalismo, e che in questa resa abbia lasciato cadere anche obiettivi limitati (e intermedi rispetto al socialismo) quali la democrazia o la diminuzione delle disuguaglianze sociali. Il modello socialdemocratico del quale si parla in queste pagine si era tradotto concretamente in Welfare state, e questo a sua volta ha subito i contraccolpi delle politiche di deregulation degli ultimi anni, insieme agli effetti della crisi economica. A leggere Berta, non si comprende se questo atteggiamento della sinistra dipende da una caduta delle sue convinzioni ideali sull’obiettivo finale da raggiungere (il socialismo), da una strategia di occultamento dell’obiettivo finale per raccogliere consensi anche presso quell’elettorato al quale la parola socialismo fa paura, ovvero da un ripensamento sugli eventi capitali occorsi nella storia a noi più prossima. Vivere in un’età che è stata definita già molti anni or sono postideologica non può essere indifferente, soprattutto a sinistra. Ma un peso lo ha esercitato probabilmente anche la globalizzazione: assistere in un torno velocissimo di tempo al diffondersi su scala mondiale del capitalismo deve aver colpito anche coloro che della globalizzazione criticano modalità di realizzazione ed effetti negativi. E infine, l’idea che l’unico modo di produzione possibile sia il capitalismo non dipenderà anche dalla scomparsa dell’URSS, dove si era incarnato non l’unico socialismo possibile, ma certo l’unico realizzato su vasta scala in seguito a una rivoluzione?
Vi è nelle riflessioni di Berta un punto che resta oscuro: non è chiaro perché egli consideri il social liberalism, insieme alla “democrazia sociale” che ne discende, una eredità del passato, “dell’età in cui il laburismo era ancora una costola del liberalismo”. Non era proprio in quel social liberalism, in quella democrazia sociale, che si traduceva l’ideale politico a cui l’autore fa riferimento e che consiste nell’unire il mantenimento del sistema produttivo occidentale e della libertà politica con obiettivi di giustizia sociale, eguaglianza, livellamento dei redditi? Berta rimprovera ai nuovi socialisti del XXI secolo di aver rinunciato alle parole d’ordine e agli ideali del socialismo, ma allo stesso modo si potrebbe rimproverare a lui di non riconoscere al progetto che propone alla sinistra riformista i progenitori che gli spettano: quell’ibrido fra liberalismo e socialismo che nasce tra Ottocento e Novecento e che assume varie denominazioni nel corso della storia (socialismo liberale, liberalsocialismo, social liberalism). Esso gli pare vecchio e defunto, ottocentesco, così legato al liberalismo da apparire come una sua variante, tutt’altra cosa rispetto alla socialdemocrazia. Invece, la traduzione politica di quel modello economico che possiamo indicare come socialdemocrazia o Welfare state è precisamente quell’ibrido ideologico propugnato da John Stuart Mill nella seconda fase della sua riflessione, e poi sostenuto da autori che vanno da Hobhouse a Renouvier, da Carlo Rosselli a Bertrand Russell, da Thomas Green a John Dewey.
La proposta di Berta è del tutto assimilabile con altre analoghe che hanno avuto corso nei secoli XIX e XX e che hanno mirato a proporre e riproporre il socialismo liberale (o liberalsocialismo) sotto varie denominazioni e varie forme. Il socialismo liberale si rifà proprio al laburismo del quale il nostro autore lamenta la scomparsa, e vede nell’unionismo, ovvero nel sindacalismo britannico, un modello da seguire nell’azione politica. Riprende dalla tradizione inglese il gradualismo, l’antimarxismo, una via riformista e non rivoluzionaria al mutamento sociale, l’idea che il capitalismo vada conservato eliminandone però gli effetti più macroscopici di disuguaglianza, il principio di una più equa distribuzione della ricchezza, la centralità del lavoro, l’idea che le forti disuguaglianze in una società siano negative per la tenuta di quella società perché portatrici di sofferenze e quindi di spinte distruttive. Esprime insomma quella sintesi fra liberalismo e socialismo che traduce in formula politica e ideologica il progetto socialdemocratico riproposto da Berta.
Ciò di cui l’autore lamenta la scomparsa, infatti, è “un ibrido disinteressato a distinguere fra liberalismo e socialismo, per dirla ancora con le categorie del secolo scorso”. Il Novecento avrebbe distinto tra liberalismo e socialismo, mentre oggi è necessario che una sinistra riformista non faccia differenze tra l’uno e l’altro. Berta afferma: “Il futuro, se un futuro vi è per un centrosinistra che possegga autentico spirito europeo, spinge ad abbattere le surrettizie distinzioni ideologiche del passato, che non tengono conto delle urgenze del presente.” Dimentica però che è proprio il passato ad aver intrapreso la strada che egli indica al futuro, ed esattamente quando ha espresso ideologie politiche che vanno sotto il nome di socialismo liberale, di liberalsocialismo, di liberalismo sociale: il tentativo di correggere il capitalismo(che veniva accettato) in direzione di una maggiore equità sociale, l’unione della libertà liberale con una attenzione per la giustizia sociale, la salvaguardia della libertà in economia (contro la nazionalizzazione propugnata da una parte del socialismo) insieme al desiderio di far scomparire (o almeno diminuire) le disuguaglianze presenti all’interno della società, è infatti ciò che caratterizza quelle correnti.
Infine, veniamo alla crisi economica attuale e all’effetto Obama. Berta invita a vedere nella crisi economica che oggi ci tocca l’occasione per invertire la rotta rispetto allo Stato minimo, alla centralità del mercato, all’individualismo. In questo modo, ridiventerebbe attuale la ricetta fornita da Keynes nella crisi del ’29. Ma non è affatto certo che dalla crisi si esca con un maggior peso dello Stato nell’economia, né è detto che un maggior peso dello Stato nell’economia (qualora si verifichi) coincida con una ripresa della socialdemocrazia. Quanto agli Stati Uniti, è difficile prevedere fin da ora, nel gioco delle vicinanze e lontananze che hanno sempre contraddistinto i rapporti fra Vecchio e Nuovo Mondo, quale potrà essere l’effetto sull’Europa e su un centrosinistra alla ricerca di una leadership e una linea politica coerente di un’amministrazione come quella certamente molto dinamica e innovativa di Obama.

17 giugno 2009

Un raggio di luce nell'ora più buia.


L'Osservatore romano di ieri ha pubblicato questa bellissima recensione di Andrea Possieri del volume "Storia di Sophie Scholl e della Rosa Bianca" (Torino, Lindau, 2008, pagine 308, euro 22) di Annette Dumbach e Jud Newborn.
Furono essenzialmente questi i giovani che dettero vita, tra l'estate del 1942 e il febbraio del 1943, al gruppo della Rosa Bianca, il minuscolo ed eroico manipolo di studenti che si oppose al nazismo attraverso una serie di volantini e scritte murali contro il regime. Il 22 febbraio del 1943 Sophie Scholl venne ghigliottinata dal regime a soli ventuno anni. E con lei suo fratello Hans e il suo amico Christoph Probst. Nei mesi successivi vennero uccisi altri studenti e il professore Kurt Huber, ma la vicenda ha finito, quasi sempre, per associarsi alla biografia di Sophie Scholl. Anche il volume Storia di Sophie Scholl e della Rosa Bianca (Torino, Lindau, 2008, pagine 308, euro 22), scritto dalla giornalista Annette Dumbach e da Jud Newborn, responsabile del Museum of Jewish Heritage di New York, porta nel titolo il diretto riferimento a questa giovane donna che venne uccisa dagli sgherri di Hitler nello stesso giorno del processo. L'ennesimo processo farsa inscenato da Roland Freisler, fanatico sostenitore del nazionalsocialismo, grande ammiratore del terrore staliniano e delle strategie con cui Andrei Vishinsky esercitava la sua carica di pubblico ministero nella Mosca degli anni Trenta del Novecento.

Una giovane donna tedesca, dunque, che si oppose a quella forma di tiranno che costella la nostra immaginazione come una delle più perfette rappresentazioni del male. Sophie Scholl e i suoi amici contro Hitler e il regime nazista. Un lotta che, apparentemente, non sembra stare in piedi. Un conflitto che, in questi termini, sembra quasi irreale. D'altronde, la vicenda della Rosa Bianca nella sua estrema esiguità - pochissime le persone coinvolte, circoscritto l'arco di tempo in cui si svolse la vicenda, limitato il raggio di azione - potrebbe essere sbrigativamente derubricata al rango di un'azione prepolitica, di un moto dell'anima o, addirittura, di una vampata adolescenziale. Potrebbe, appunto, ma non fu così.

Il volume curato da Dumbach e da Newborn, scritto con uno stile narrativo asciutto che non concede nulla alla melassa apologetica tipica della letteratura eroicocelebrativa, mostra ancora oggi il valore, al tempo stesso politico e morale, di quell'opposizione alla tirannide per certi versi solo intima e spirituale. Le loro azioni, come sottolineò il primo presidente tedesco Theodor Heuss, rappresentarono "un raggio di luce nell'ora più buia", furono la dimostrazione che il nazismo non era riuscito ad annullare nell'intimo le coscienze. Una forma di lotta e di eroismo fuori dai cliché tradizionali. Nessun fiero condottiero al comando, nessun credo rivoluzionario da divulgare, nessuna palingenesi sociale da mitizzare. Non si trattò, neanche, di un vezzo borghese pagato a caro prezzo, né di uno spunto intellettuale e giovanilistico finito in malo modo. Nei sette volantini della Rosa Bianca - l'ultimo, il settimo, viene pubblicato per la prima volta nel volume edito da Lindau - riecheggiano le parole di Schiller e i versi di Goethe, i riferimenti alla Bibbia e alla Civitas Dei, l'appello al popolo tedesco e un continuo, irrefrenabile, grido di libertà.

Richiami intellettuali e motivazioni ideali non proprio così diffusi nella Germania dell'epoca. Negli anni precedenti il conflitto, infatti, il regime nazista aveva rappresentato una forma di fascinazione e annichilimento che aveva ammaliato le nuove generazioni. E lo era stato anche per i fratelli Scholl, i quali durante i primi anni del regime erano stati contagiati dall'entusiasmo che si avvertiva nelle scuole e nei gruppi: indossare le uniformi, marciare nelle fiaccolate per le strade di Ulm, accamparsi nelle campagne, sentirsi parte di un progetto di ricostruzione di una nazione profondamente divisa e sfiduciata. La gioventù doveva essere la punta di diamante nella battaglia per la nuova Germania: l'indottrinamento era lo strumento per educarla. Come gli Scholl, gran parte dei ragazzi tedeschi era inscritta alla gioventù hiltleriana con entusiasmo. Alla fine del 1932 c'erano già centomila iscritti, che salirono a quattro milioni nel 1935.

Nonostante questo clima di forte esaltazione comunitaria e nazionalista questi giovani svilupparono la loro opposizione al regime. Dapprima nella propria coscienza, nel rifugio più intimo della persona, poi con un'azione dimostrativa. Le ragioni che li hanno spinti a unirsi e a procedere da un "esilio interiore" verso una resistenza attiva sono per lo più sconosciute, quasi enigmatiche, e lasciano spazio soltanto alle ipotesi dello studioso. Fatto sta, che a un certo punto della primavera del 1942, Hans Scholl e l'amico Alex Shmorell, decidono di agire, di abbandonare la "resistenza spirituale" e di impegnarsi in un'aperta opposizione al regime nazista.

La resistenza tedesca al nazionalsocialismo fu un fenomeno senza dubbio di dimensioni minori rispetto ai moti di opposizione ai regimi totalitari europei che si svilupparono in altri Paesi, ma non per questo ebbe una minore dignità. Figure come il colonnello Hans Oster e il reverendo Dietrich Bonhoeffer, il vescovo di Münster, Clemens August von Galen e il colonnello von Stauffenberg testimoniano ancora oggi il tentativo di opposizione al nazismo. Negli anni del regime, inoltre, sono stati contati più di trecento gruppi che agivano clandestinamente attraverso la distribuzione di stampe e volantini. Tra questi gruppi, il più noto dei quali probabilmente è la Rote Kapelle, c'era anche quello particolarissimo della Rosa Bianca. La memoria storica di quegli eventi, però, nel secondo dopoguerra, come ricostruiscono nel loro volume Dumbach e Newborn, non fu esente da critiche e insinuazioni. Per molti anni, infatti, la vicenda della Rosa Bianca finì nel silenzio se non addirittura in un evidente risentimento tra chi accusava i giovani membri di essere stati dei traditori del proprio Paese in tempo di guerra, oppure di essere adolescenti vizianti che non avevano avuto riguardo per le famiglie o addirittura di essere idealisti prodotti dall'accademia, innamoratisi del rischio di farsi gioco della Gestapo.

Gli scritti di Inge Scholl, la sorella dei fratelli giustiziati, sono stati pubblicati pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma è solamente negli anni Ottanta, e grazie al cinema, che si infrange il muro del silenzio e che la pubblicistica sulla Rosa Bianca inizia a uscire dai canali catacombali dai quali era stata inghiottita. Due celebri registri di Monaco raccontarono la vicenda sul grande schermo. Die Weisse Rose di Michael Verhoeven e Gli ultimi cinque giorni di Percy Adlon vinsero nel 1982 numerosi premi e scatenarono una forte reazione nel pubblico tedesco. Come chiosano nel loro volume, Dumbach e Newborn, "fu un'esperienza toccante per molti vedere morire ghigliottinati Hans, Sophie e Christoph".

16 giugno 2009

Un nuovo umanesimo del lavoro.


Nel post precedente si è accennato alla relazione del Segretario generale della CISL, Raffaele Bonanni, al XVI Congresso della Confederazione. Ecco la parte che ci interessa in modo particolare: un nuovo umanesimo del lavoro. E' un passaggio coraggioso e decisivo.

Da come operiamo, ora, per uscire dalla crisi dipende la qualità del futuro del nostro Paese
Proprio l’andamento e le conclusioni del G20 indicano che la ripresa dalla crisi comporterà un nuovo equilibrio tra gli Stati, una ristrutturazione del capitalismo, dei suoi rapporti con la politica, di quelli tra l’industria e la finanza, una profonda innovazione produttiva e sociale. Il problema allora è come ci prepariamo, sindacato, imprese, società, istituzioni per consentire all’Italia di partecipare a questo nuovo sviluppo dai tratti fortemente competitivi e rispetto al quale è molto alto il rischio dell’emarginazione.
Innanzitutto occorre andare oltre la lettura economico finanziaria della crisi e riconoscere proprio da questa lettura che l’origine della crisi è stata nella rimozione della centralità della persona, nel suo valore soggettivo e comunitario, e del lavoro produttivo. E’ prevalsa l’illusione di una crescita inarrestabile fondata sulle rendite professionali, finanziarie, immobiliari, speculative, secondo un modello sociale di alti redditi per alti consumi, con sempre più profonde ingiustizie.
Un modello di sviluppo, dunque, alternativo all’economia finanziaria e speculativa, deve fondarsi sulla rivalutazione del lavoro E’ attraverso il lavoro che ogni persona afferma la propria libertà e dignità, realizza un suo progetto di vita, partecipa alla crescita della comunità in cui vive.
Siamo per un “nuovo umanesimo del lavoro“ che ha le sue radici nei luoghi in cui vi è partecipazione e democrazia e che si esprime nell’etica della responsabilità di ogni persona nel proprio lavoro, nell’esercizio attivo dei diritti contrattuali e delle tutele sociali, nella partecipazione dei lavoratori nell’impresa in cui operano.
Il fondamento di una nuova coesione sociale dunque dipenderà dall’affermarsi della partecipazione dei lavoratori ai destini dell’impresa, con un nuovo equilibrio tra capitale e lavoro (democrazia economica) e della partecipazione politica e sociale dei cittadini ai destini della società in cui vivono (democrazia partecipativa).

La democrazia economica

La Cisl è in campo per ridare vigore, in ogni livello, a tutti gli strumenti della democrazia economica, la contrattazione, la bilateralità, la concertazione, la partecipazione a governance, azionariato ed utili, strumenti di partecipazione che integrano e rafforzano la democrazia politica.
Sulla partecipazione dei lavoratori alla governance, agli utili e all’azionariato collettivo è tempo che il Parlamento provveda ad unificare le diverse proposte di legge di maggioranza e di opposizione e giunga finalmente ad una legge in attuazione dell’articolo 46 della Costituzione.
Sarebbe stata un’altra storia di trasparenza e garanzia per la nostra economia rispetto ai “demoni” della finanziarizzazione, se le privatizzazioni degli anni ‘90 in Italia fossero avvenute, come chiedeva la Cisl, in un disegno di democrazia economica, con il coinvolgimento dei lavoratori. Lo stesso disegno lo riproponiamo ora come un vincolo rispetto all’ingente soccorso delle risorse pubbliche alle banche e alle grandi imprese dei settori industriali, e come una ulteriore opportunità, questa volta da non mancare, nelle privatizzazioni e liberalizzazioni dei servizi di pubblica utilità, nazionali e locali.
E’ paradossale che il fiore del modello europeo di economia sociale di mercato sia fiorito con la Chrysler in America, nella terra del libero mercato! I lavoratori per tutelare l’impiego partecipano al capitale (il 55% delle azioni) e alla governance dell’impresa. Se riuscisse anche l’intesa con la Opel, convivrebbero nel sistema FIAT - Chrysler – Opel due modelli di democrazia economica, espressa nei Consigli di amministrazione e nei Consigli di sorveglianza. Il mondo imprenditoriale e il movimento sindacale hanno di che riflettere per un rinnovamento profondo delle relazioni sindacali, ad iniziare dalla FIAT. Quella stessa FIAT che vogliamo salvaguardare attraverso il mantenimento della produzione negli stabilimenti italiani e la loro centralità nel nuovo sistema integrato. Siamo in grado di assumere la duplice sfida sia della responsabilità nella realizzazione di un modello di democrazia economica sia della innovazione nella produzione delle vetture a basso impatto ecologico, rispetto alla quale la FIAT può diventare la frontiera più avanzata, grazie alle sue capacità di ricerca. E’ urgente, pertanto, il confronto tra Governo, Fiat e sindacati, come richiesto da tempo e recentemente dalla manifestazione di Torino la cui violenza respingiamo.
Per un piano di rilancio degli stabilimenti italiani siamo pronti a fare la nostra parte, come la deve fare il Governo per sostenere l’innovazione.
Ad una partecipazione più consapevole agli investimenti aziendali deve aprirsi anche la gestione dei fondi previdenziali contrattuali, ovviamente salvaguardando il valore dell’accumulazione.
In una nuova stagione di democrazia economica l’impegno sindacale deve radicarsi maggiormente nel territorio. Dobbiamo rendere vitale l’azione del sindacato, come è stato fin dalle origini della Cisl, là dove lavoratori e pensionati vivono ed esprimono i loro problemi e possono essere protagonisti della iniziativa collettiva.
E’ decisiva la contrattazione di secondo livello, aziendale o territoriale, pienamente riconosciuta del recente Accordo che realizza un obiettivo storico della Cisl, con la valorizzazione del salario di produttività, fiscalmente incentivato, e di un pieno sviluppo della bilateralità. Con questo livello di contrattazione i lavoratori possono riconquistare il controllo di tutti gli aspetti delle condizioni del loro lavoro.
Anche il nuovo welfare si costruisce con la vertenzialità e la concertazione territoriali, dal fisco regionale e locale alla politica dei redditi, alla scuola, alle politiche per la tutela attiva dei lavoratori, alla sanità e all’assistenza (per queste ultime con un forte protagonismo della FP e della FNP nella iniziativa confederale delle Unioni).
In questo ambito della modernizzazione delle pubbliche amministrazioni, la contrattazione e la concertazione sociale si legittimano in termini confederali, se assumono come obiettivo, in particolare come parametro di efficienza il soddisfacimento della domanda e degli interessi dei cittadini e delle imprese. Non perseguire questo obiettivo significa esporsi ancor più al populismo contro i pubblici dipendenti.

La democrazia partecipativa

Il punto è la valorizzazione dei corpi sociali intermedi, ad iniziare dal sindacato, dalle associazioni, dal volontariato e dalle comunità territoriali, in cui la persona esprime identità ed interessi. Bisogna risalire la china della crisi della democrazia partecipativa.
La politica non deve esaurirsi nel mandato elettorale. Ai cittadini va restituito il diritto di scegliere chi li deve rappresentare in Parlamento. Devono tornare a contare le assemblee elettive, ai diversi livelli, svuotate da un presidenzialismo plebiscitario e dalla personalizzazione mediatica. La politica, esercitata attraverso la partecipazione delle persone, torna a rispondere ai problemi concreti, quindi ad essere proposta, progetto, mediazione.
Il populismo va combattuto. Il popolo deve tornare a contare con la partecipazione politica e sociale dei cittadini e attraverso una rinnovata vitalità delle organizzazioni sociali nella sussidiarietà. Occorre promuovere una diffusa presenza di organismi di controllo sociale dei cittadini nel territorio, dalla rivitalizzazione degli organi collegiali nella scuola, alla loro promozione in tutti i servizi pubblici.
La nuova forma dello Stato, con il federalismo fiscale, può essere la grande occasione politica ed istituzionale per dare nuova sostanza alla democrazia partecipativa, ma non è un buono auspicio che la sussidiarietà sembra scomparsa dal dibattito!

Mitbestimmung, perché no?


Il Corriere della sera del 7 giugno sc. ha pubblicato questo interessante articolo di Massimo Mucchetti. E' un argomento sul quale il nostro Circolo è molto sensibile. Non se ne parla molto ed il tutto sta passando inosservato. Però, il Segretario generale della CISL, Raffaele Bonanni, ha dedicato ad esso un'attenzione particolare nella sua relazione il 20 maggio scorso al XVI Congresso della confederazione.

Nella General Motors post-fallimento il sindacato United Auto Workers (Uaw) avrà il 17,5 per cento del capitale in seguito alla rinuncia a 20 miliardi di dollari di crediti per l’assistenza dei 91 mila dipendenti americani. Non è ancora chiaro se avrà seggi nel board della nuova Gm. In Chrysler, dove è stato fatto analogo consolidamento, ne ha uno su nove, avendo il 55 per cento del capitale. A Detroit l’azionariato operaio altro non è che un concordato tra l’impresa debitrice e il suo creditore più importante: una soluzione d’emergenza con cui i lavoratori puntano a recuperare qualche soldo. Con una presenza così limitata al vertice, lo Uaw potrà controllare le decisioni, non condividerle.

In Europa, invece, la condivisione del potere può essere profonda. La società per azioni europea consente di scegliere tra il modello capitalistico, nel quale comanda il consi­glio di amministrazione nominato dagli azionisti, e il regime di codecisione (Mitbestimmung) articolato sul consiglio di sorveglianza, formato dai rappresentanti dei soci e dei dipendenti, e sul consiglio di gestione, formato da manager scelti dai sorveglianti.

La Mitbestimmung ha forti radici lungo il Reno. Anche qui l’impresa mira al profitto, ma senza l’esasperazione anglosassone. Nell’economia capitalistica il lavoro è merce: umanità reificata da riscattare, secondo Marx; costo da abbattere, per i teorici dello shareholder value. I governi tedeschi, invece, hanno riconosciuto al lavoro una dignità meritevole di potere senza bisogno di supporti azionari. Nelle aziende da 300 a 2000 dipendenti, i rappresentanti del lavoro sono 3 su 9 membri del consiglio di sorveglianza, nelle aziende più grandi sono 6 su 12 e 10 su 20 e comprendono anche sindacalisti esterni. In caso di stallo, decide il presidente, nominato dai soci. Ma non ci si arriva quasi mai.

L’economia globale e finanziarizzata ha fatto emergere al cuni limiti: mancano la rappresentanza dei dipendenti esteri e l’uso delle azioni per remunerare e coinvolgere. Il primo limite è già superabile. Allianz, per esempio, si è trasformata in spa europea e, rifiutando l’opzione anglosassone, ha affiancato ai 6 consiglieri del capitale 3 rappresentanti del lavoro tedesco, 2 dell’inglese e uno del francese. L’incentivazione fiscale dell’azionariato dei dipendenti, invece, è ancora all’attenzione del Bundestag.

E in Italia? Il ministro Sacconi propende per il mero azionariato operaio, partecipazione senza potere. Cisl e Uil vorrebbero tutto. La Cgil critica le sperimentazioni americane ma glissa sull’esempio tedesco.
A Milano, il governatore Formigoni plaude alla Cisl lombarda pro Mitbestimmung. Il presidente della Provincia, Penati, apre. Ma alle Ferrovie Nord e all’autostrada Milano-Serravalle, grandi imprese pubbliche locali, non accade nulla.
È l’Italia tutta chiacchiere e distintivi.

05 giugno 2009

La "moh!...numentale" a Mah!...rengo (?!)


Il discorso avviato su Marengo, non è passato nel dimenticatoio.
Conclusi gli impegni per la celebrazione di Matteotti ritorneremo sull'argomento.
Nel frattempo abbiamo appreso dal "Bilancio di mandato" del presidente uscente Paolo Filippi, che la piramide è costata 950.000 (diconsi: novecentocinquantamila) €uri.
Nel Bilancio la piramide è definita: monumentale.
Monumento a che cosa e a chi?! Moh!
Non abbiamo parole, non perchè si è perso il dizionario ma, per usare un'espressione educata, perchè un meravigliato stupore ci chiude la bocca e ci fa' mordere la lingua.
Ma perchè le competenti Soprintendenze, in particolare quella "per i Beni Ambientali e Architettonici per il Piemonte", hanno lasciato alterare il sito in questo modo? Il cosiddetto "impatto" è stato valutato?
La "moh!...numentale" a Mah!...rengo...

Nella foto, un momento della costruzione della "moh!...numentale". E' forse ultima immagine del prospetto nord (posteriore) originario della Villa, prima che la "moh!...numentale" lo facesse scomparire.

04 giugno 2009

Una bella sorpresa ed una conferma.


Nei giorni scorsi volendo approfondire il discorso su Giacomo Matteotti, ci si è procurati il volume: Il delitto Matteotti. Storia e memoria. (Lacaita Editore, 2004) del prof. Stefano Caretti, docente di storia contemporanea all'Università di Siena, nonchè Presidente dell'Associazione nazionale "Sandro Pertini" e Vicepresidente della Fondazione di Studi Storici "Filippo Turati".
A pag. 71 è riportata l'illustrazione che riproduciamo qui sopra (cliccare sull'immagine per ingrandirla). E' il telegramma del 2 novembre 1924 con il quale il Prefetto di Alessandria, Giuseppe Regard, comunica al suo "superiore Ministero" che nella mattina di tale giorno "nel Cimitero di Alessandria vennero sequestrati una lapide mobile con la scritta "Al martire Matteotti Giacomo il proletariato alessandrino riconoscente e memore pose" nonchè una fotografia dell'on. Matteotti con nastro riosso. Le indagini praticate per identificare le persone che portarono, certo durante la decorsa notte, detti oggetti al Cimitero sono finora riuscite vane."
Questo documento qui da noi è veramente inedito.
E' la "prova provata" che quanto affermato nell'epigrafe della lapide posta nel 1949 (v. sotto: cliccare sull'immagine per ingrandirla) non era solo tradizione orale ma esattamente la verità.
Le stesse parole scritte in quel 1949 rieccheggiano quasi con precisione quelle di 25 anni prima (a meno di cinque mesi dall'uccisione).
La stessa cosa era successa il giorno prima (1° novembre 1924) al Cimitero di Valmadonna: il nastro, il nastro rosso era lungo - come scrive il Prefetto Regard - tre metri.....

03 giugno 2009

Tienanmen, vent'anni dopo.


In questi giorni, forse occupati su altri argomenti, sta passando sotto silenzio un anniversario importante: i vent'anni di Tienanmen.
Qualcuno obietterà che qui ci si occupa solo di anniversari.
Non è mera celebrazione: la storia è memoria e dalla storia si traggono gli insegnamenti; con la storia bisogna sempre fare i conti. Se si sa da dove si viene, si sa anche dove andare. Scrive, infatti, Cicerone nel "De Oratore" (Liber II.Cap. IX.36): "Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis..... La storia è il testimone dei tempi, la luce della verità, la vita della memoria, la maestra della vita e il messaggero dell'antichità."
Molti problemi che sono oggi sul tappeto derivano da "conti con la storia" ancora aperti. Si avrà occasione di tornare su questo argomento quando si parlerà di un altro "20° anniversario", quello della caduta del muro di Berlino.
Ma rimanendo a Tienanmen, da qualche giorno il sito "Asianews" (ben diretto da padre Bernardo Cervellera), per aiutare i giovani di tutto il mondo - anche i cinesi - a conoscere cosa è il "massacro di Tiananmen", senza farsi manipolare dalle invenzioni del potere cinese, presenta una serie di testimonianze offerte dai protagonisti di quei giorni.
Pubblichiamo l'articolo con il quale padre Cervellera inizia il dossier di Asia News.
Il dossier completo è qui.


Roma (AsiaNews) - Il 2009 segna 20 anni dalle manifestazioni e sit-in di studenti, operai e contadini che per oltre un mese hanno occupato piazza Tiananmen nell’aprile - maggio 1989. Il movimento non violento chiedeva “più democrazia e meno corruzione” al Partito comunista che, avendo intrapreso alcune modernizzazioni economiche, resisteva ad attuare le riforme politiche. Per settimane giovani da tutta la Cina hanno sostato nella piazza più grande del mondo, sostenuti dalla popolazione di Pechino e attendendo un’apertura e il dialogo con la leadership. Il 26 aprile il Partito, con un furioso editoriale sul Quotidiano del popolo, ha bollato il loro movimento come “contro-rivoluzionario”, mirante a rovesciare il sistema comunista, e per questo doveva essere dissolto. La notte fra il 3 e il 4 giugno di 20 anni fa, l’esercito “per la liberazione del Popolo” è intervenuto coi carri armati a “liberare” la piazza occupata da studenti e operai indifesi.Secondo organizzazioni internazionali (Croce Rossa e Amnesty International) oltre 2600 persone sono state uccise quella notte nella piazza e nelle vie adiacenti. Almeno 20 mila persone sono state arrestate nei giorni seguenti, mettendo fine al “sogno della democrazia”.

Personalità del Partito che avevano resistito all’ordine del massacro, sono state arrestate ed esautorate. Fra essi vi è Zhao Ziyang, all’epoca segretario generale del Partito e Bao Tong, suo collaboratore. Zhao ha vissuto agli arresti domiciliari per tutto il resto della vita, fino alla sua morte, il 17 gennaio del 2005.

Bao, dopo aver passato 7 anni in prigione, vive ancora oggi agli arresti domiciliari, col telefono controllato.

Nei giorni scorsi è stato pubblicato (in inglese e in cinese) un libro con le memorie di Zhao Ziyang, dal titolo “Prigioniero di Stato”. In esso - grazie a registrazioni segrete avvenute nella casa di Zhao ed elaborate all’estero - emergono alcune verità sul massacro di Tiananmen, sulle responsabilità del leader Deng Xiaoping, che nella sua “paranoia” temeva una rivoluzione giovanile; sulle responsabilità dell’ex premier Li Peng, che ordinò il massacro e sull’acquiescenza dell’allora sindaco della capitale Chen Xitong, che permise l’arrivo dei carri armati sulla piazza. Entrambi hanno appoggiato Deng solo per mire di carriera e di potere.

Da allora, il Partito ha cercato di cancellare la memoria del massacro, giustificandolo talvolta come “il male minore”, il prezzo pagato per garantire la “stabilità” e raggiungere lo sviluppo economico che ne è seguito.

Ogni anno, all’arrivo del 4 giugno, il silenzio sul massacro è di norma, i dissidenti vengono messi agli arresti e i controlli vengono aumentati. Ma ogni anno, soprattutto i genitori che hanno avuto i figli falcidiati dall’esercito, domandano al Partito di conoscere la verità sul bagno di sangue, su chi ha dato l’ordine, sul perché. Raccolti in un’associazione chiamata “Madri di Tiananmen” essi esigono che il Partito cambi la definizione di “controrivoluzionari” data ai loro figli defunti, per chiamarli invece “eroi” e “patrioti” perché, essi dicono, stavano lavorando per il bene del popolo cinese.

L’avvenimento del 4 Giugno segna uno spartiacque nella vita della Cina e del mondo. Per aiutare i giovani di tutto il mondo – anche i cinesi - a conoscere cosa è il “massacro di Tiananmen”, senza farsi manipolare dalle invenzioni del potere, AsiaNews presenta una serie di testimonianze offerte dai protagonisti di quei giorni. La memoria del passato serve a non ripetere gli errori nel futuro. Purtroppo la Cina sembra dirigersi in modi molto pericolosi verso una ripetizione amplificata di quel massacro. Questa volta le vittime sono operai, contadini, studenti, lavoratori migranti che a centinaia di milioni non godono del benessere creato dall’attuale sviluppo economico, segnato – proprio come 20 anni fa – dalla corruzione dei membri del Partito e dalla mancanza di democrazia e di dialogo.
In una verifica del cammino di questi 20 anni, vale la pena anche mettere in luce il legame fra movimento democratico e libertà religiosa. Nei primi anni dopo l’89, il braccio di ferro fra i dissidenti e il Partito è rimasto troppe volte a livello di rivendicazione economica o di particolare libertà individuale. Ma ormai in Cina si diffonde sempre più una cultura che mette al centro la persona e i suoi diritti inalienabili, valorizzando il potere dello Stato, ma non la sua dittatura autoritaria. Per questo salto è stato importante per alcuni dissidenti proprio l’esilio all’estero, il contatto con comunità cristiane occidentali, o la ricerca religiosa all’interno della Cina. Personalità come Gao Zhisheng, Han Dongfang, Hu Jia hanno scoperto la fede cristiana come la base del valore assoluto della persona, come la forza della loro dissidenza e della difesa dei diritti umani. Questo innesto fra impegno civile e libertà religiosa è uno dei frutti che fa più sperare per il presente e il futuro della Cina.

02 giugno 2009

2 giugno...
















L'originale dello stemma della Repubblica, firmato dall'allora Presidente del Consiglio dei Ministri, Alcide De Gasperi.





La più bella edizione dell'Inno.....



...cantato dalla Nazionale e da un intero stadio....

01 giugno 2009

Chi segue il blog avrà capito che ci piace accompagnare i commenti e le discussioni con una, come dire, colonna sonora.
Ecco, un piccolo intermezzo musicale, in attesa delle elezioni.
Cercheremo di commentare anche le elezioni con qualche musichetta.
Abbiamo detto in un post precedente che in questo 2009 ricorrono i vent'anni di grandi avvenimenti che hanno segnato la storia, davvero.
In quell'anno a Sanremo Raf lanciò una canzone che ebbe un grandissimo successo; forse una delle più belle canzoni di vera musica italiana.