10 luglio 2009

Non c’è scampo. Passeremo il tempo a chiedere perdono per i nostri errori.


Su "Tempi" del 9 luglio, questo ragionamento di Giorgio Israel.

Il Financial Times ha dedicato alla notizia la prima pagina. Il signor Nick Draper, avendo smesso di lavorare nella celebre banca d’affari JP Morgan ed essendosi dedicato all’attività di storico dell’economia, ha scoperto in un archivio londinese scottanti dossier concernenti la dinastia dei banchieri Rothschild e degli avvocati Freshfield.

In entrambi i casi i documenti proverebbero compromissioni con lo schiavismo avvenute quasi due secoli fa. Pare che un certo Lord James O’Bryen avesse chiesto un prestito ai Rothschild che avevano ottenuto in cambio un’ipoteca sulle sue proprietà in America inclusi gli 88 schiavi che vi lavoravano. Il Lord era insolvente e i Rothschild pretesero il dovuto inclusi gli schiavi: questo nel 1830 quando la schiavitù era stata appena dichiarata illegale nel Regno Unito. Anche l’avvocato James W. Freshfield avrebbe trattato un trasferimento di proprietà comprensive di decine di schiavi, ottenendo sontuose parcelle.

Lo scandalo sarebbe aggravato dal fatto che entrambe le dinastie hanno la fama di esponenti del capitalismo illuminato. Pertanto, come minimo dovrebbero porgere le loro umili scuse – difatti sia la banca Rothschild che lo studio Freshfield hanno promesso rigorose indagini – ma non sono escluse conseguenze economiche. Esistono precedenti: nel 2005 proprio la JP Morgan non soltanto dovette porgere le sue scuse perché nell’Ottocento due sue affiliate avevano acceso ipoteche sugli schiavi, ma per calmare gli animi istituì borse di studio per 5 milioni di dollari riservate a studenti afroamericani. Anche la banca Lehman Brothers (fallita durante la presente crisi) dovette scusarsi nel 2005 perché le società che appartenevano al gruppo si erano compromesse con lo schiavismo. La cenere sul capo è toccata anche a due università americane: la celeberrima Yale University, anch’essa un tempo implicata nello schiavismo, come documentato da alcuni suoi studenti, e la Brown University. È probabile che la lista si allungherà.

Non vi è bisogno di dire quale orrore provochi in noi lo schiavismo. Ma l’idea che ogni istituzione dell’occidente debba passare il suo futuro a scusarsi per ciò che hanno fatto i suoi predecessori è nauseabonda. Non solo perché è scioccamente moralistica ma perché è insopportabilmente ipocrita. Per essere coerenti bisognerebbe elevare un coro di scuse da assordare il mondo intero e bloccare ogni altra attività. Ma bisognerebbe farlo non solo in occidente: gli altri sono forse tutti angioletti? Non solo: bisognerebbe parlare dello schiavismo di oggi, che non c’è più in occidente bensì altrove. Talora è schiavismo di massa, sequestro di interi popoli che li tiene asserviti con la minaccia della morte o della tortura.

Ma di questo nessuno vuol parlare. Di che stupirsi se persino al vertice degli Stati Uniti è giunta l’espressione del politicamente corretto che passa il tempo a deplorare le colpe dell’occidente mentre si inchina reverente di fronte ai satrapi orientali che schiavizzano le donne?

E allora, visto che non c’è scampo, avanzo una proposta. Cominciamo con Aristotele. Nessuno può negare che fosse difensore del carattere naturale della schiavitù. Che tutti gli editori del mondo scarichino sulle pubbliche piazze i libri di Aristotele, che li si dia alle fiamme e si punisca per legge chi oserà in futuro leggere quei testi infami. Gli editori occidentali dovranno impegnarsi a pubblicare opere di schiavi di acclarata autenticità che prenderanno il posto di quelle di Aristotele nelle biblioteche. Questo tanto per cominciare. Poi faremo i conti con Platone. La lista è lunga e chi si è macchiato di colpe dovrà tremare.

Sempre a proposito di "schiavitù", ecco una scheda da "L'Almanacco del giorno".

Diffusa nella maggior parte del mondo antico, la schiavitù ha assunto forme diverse nel corso dei secoli e a seconda delle civiltà. Le condizioni degli schiavi variano notevolmente, ad esempio, da quelle durissime imposte dalla costituzione spartana a quelle relativamente migliori dell'impero romano, che prevedevano la possibilità di un riscatto.
In ogni caso, nell'antichità e per tutto il medioevo sono poche le voci che si levano contro la schiavitù come istituto sociale; la più autorevole quella di Aristotele, che tuttavia, quando si dilunga sull'argomento, nella Politica, non esprime una vera condanna, ma si limita a invocare un trattamento più umano.
E in effetti le condizioni degli schiavi migliorarono un po' ovunque nei secoli successivi, anche grazie alla diffusione del cristianesimo. La schiavitù, tuttavia, non venne mai abolita ma assunse forme diverse, come la servitù della gleba in epoca medioevale, per registrare un'impennata con l'espansione del mondo moderno. A partire dal XV secolo, infatti, e per tutti i tre secoli successivi, gli imperi coloniali resero necessarie grandi quantità di manodopera da adibire ai lavori più pesanti e ingrati. Con lo sviluppo delle grandi piantagioni nel Sudamerica, iniziò poi l'importazione massiccia di schiavi dall'Africa, la pagina più pesante e drammatica nella storia della schiavitù.
A parte alcuni casi sporadici, bisogna arrivare all'illuminismo perché la schiavitù venga contestata apertamente sia sul piano morale che su quello sociale e venga difeso il principio della libertà di ogni essere umano. Sull'onda di queste idee, il primo paese ad abolire per legge la schiavitù è la Francia rivoluzionaria, nel 1791, che tuttavia la ripristinò negli anni successivi.

E' comunque nella prima metà del XIX secolo che la maggior parte degli stati promulgano leggi contro la schiavitù e la tratta di schiavi, ultimi in ordine di tempo gli Stati Uniti, nel 1865, la Spagna nel 1870 e il Brasile nel 1888.
Il primo trattato internazionale che riguarda la schiavitù è la del 1926, promulgato dalla Società delle Nazioni e ripreso nella Dichiarazione dei diritti umani del 1948. [Articolo 4: "Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma."]
Questi i passi storici fondamentali. Finora si è parlato però di schiavitù in senso stretto, che contempla la proprietà dell'uomo su un altro uomo e da qui il diritto di decidere della sua vita. Ma nell'ultimo cinquantennio ricorrenti denunce provenienti da diverse fonti testimoniano che la schiavitù, lungi dall'essere scomparsa dal mondo contemporaneo, ha assunto altre forme, spesso più difficili da sradicare. Da qui la necessità di una seconda Convenzione, promulgata dall'Onu del 1956, che condanna anche tutte le pratiche affini allo schiavismo.
Da allora le denunce non sono cessate e si moltiplicano gli appelli dalle organizzazioni umanitarie perché si intervenga contro queste pratiche; spesso però le pressioni fatte sui singoli stati non risultano efficaci, dato che esistono degli osservatori ufficiali, ma non una vera commissione di controllo.

Lavoro coatto, vendita di donne, bambini e prigionieri di guerra, servitù della gleba sono le forme più diffuse, ma nelle forme assimilabili alla schiavitù secondo la convenzione del 1956, rientrano anche il prestito su pegno e l'usura - in quanto spesso conducono a un obbligo illimitato e sproporzionato alla natura del debito nei confronti del creditore - o la speculazione e il traffico su persone che vogliono emigrare dalla loro patria.
I soggetti più esposti sono da sempre quelli più deboli, quindi bambini, donne - i cui diritti non sono adeguatamente difesi in molti paesi -, minoranze etniche, popolazioni ridotte all'estrema povertà. Vere e proprie forme di schiavitù sopravvivono poi in alcuni paesi in guerra, dove i prigionieri vengono venduti e i civili costretti a lavorare come schiavi. Uno degli stati sotto accusa in questo senso è il Sudan, dove imperversa ormai da anni una guerra civile che ha sovvertito qualsiasi ordine legale. Ma altre accuse arrivano anche dalla Mauritania, mentre in altri paesi, come Algeria e Nigeria, sopravvive ancora l'usanza di costringere le donne al matrimonio o ridurle alla schiavitù sessuale.
In condizioni affini alla schiavitù vivono anche le donne obbligate alla prostituzione in tutto il sudest asiatico, uomini e donne costretti al lavoro coatto in Brasile, Burma, Repubblica Dominicana, Punjab, e infine i bambini che lavorano - spesso senza alcun compenso - nella fabbricazione dei tappeti, nelle fornaci per mattoni, nell'agricoltura o come domestici, in Pakistan, India e Bangladesh. La piaga del lavoro infantile, infatti, diffusa soprattutto nei paesi poveri, assume spesso i caratteri della schiavitù ed è associata a varie forme di violenza.

Gli organismi internazionali che si occupano di tutti questi problemi hanno una forte presenza sulla rete, di cui sfruttano le potenzialità interattive lanciando campagne e raccogliendo adesioni. A questi siti si aggiungono gli archivi storici, quelli che contengono i documenti ufficiali e quelli di molte associazioni religiose. Insomma, il materiale è tantissimo e vario. Ma anche qui, attenzione ai fanatici: c'è chi, partendo da una condanna della schiavitù, lancia una campagna contro l'aborto; e può capitare che, digitando "slavery" con alcuni motori di ricerca, ci si imbatta solo in siti a luci rosse.