13 luglio 2009

Liberale/illiberale


Piero Ostellino è uno dei giornalisti che più apprezziamo. Dal 1970 è giornalista del "Corriere della Sera" del quale è stato anche direttore nel periodo 1984-1987. Dal 1973 al 1978 è stato corrispondente da Mosca, e ha raccolto i risultati di questo lavoro nel volume "Vivere in Russia" (Premio Campione d'Italia 1978). Attualmente è uno degli editorialisti del quotidiano.
È stato quindi fino al 1980 corrispondente da Pechino e, per i suoi servizi, ha ricevuto il Premio Saint-Vincent.
È anche membro del comitato scientifico di Società Libera, aggregazione fondata da esponenti del mondo accademico ed imprenditoriale.
Nei giorni scorsi sul Corriere nella rubrica "Il dubbio", ha scritto due importanti commenti all'iniziativa di Di Pietro di pubblicare sull'Herald Tribune un appello dal titolo "Italia democrazia a rischio". Normalmente sul blog non riportiamo commenti politici direttamente riferiti ai partiti ma questo ci pare molto, molto importante perchè, al di là della politica in senso stretto, ci pare che la questione del "metodo" sia molto molto importante.

Ecco dunque il primo articolo:


Di Pietro e l'appello sui giornali stranieri
UNA STRANA IDEA DI DEMOCRAZIA

Se non è un tentativo di indurre Paesi terzi a interferire nella nostra politica interna, è una manifestazione di sfiducia nelle istituzioni repubblicane alle quali, come parlamentare, ha giurato fedeltà. Non ci sono altre parole per definire l' «appello» di Di Pietro alla «Comunità internazionale» - pubblicato a pagamento sull' Herald Tribune - affinché eserciti «la necessaria pressione per assicurare che i principi della libertà democratica e di indipendenza della Corte costituzionale siano sostenuti al fine di impedire che la democrazia in Italia si trasformi in una dittatura di fatto». L' oggetto della surreale iniziativa è il disegno di legge governativo detto lodo Alfano, oggi legge, che, come ogni altra legge della Repubblica, doveva essere votata dal Parlamento; controfirmata dal presidente della Repubblica, che, prima di promulgarla, se vi ravvisava un vizio di forma, poteva «con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione» (articolo 74 della Costituzione); infine, in quanto controversa, deve, ora, essere sottoposta al giudizio della Corte costituzionale che ne può dichiarare «l' illegittimità costituzionale», facendola decadere «dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» (articoli 134 e 136). Il percorso della legge Alfano è, comunque, un esempio di democrazia costituzionale ancora più prescrittiva di quella di altri Paesi non meno democratici: divisione, separazione, indipendenza dei poteri esecutivo, legislativo, giudiziario (incarnato dalla Corte costituzionale), cui la nostra Costituzione aggiunge le prerogative del presidente della Repubblica. Già approvata dal Parlamento e contro-firmata dal presidente, sarà giudicata, il 6 ottobre, dalla Corte costituzionale. Che, poi, come scrive Di Pietro nel suo appello, «secondo il pronunciamento di oltre 100 costituzionalisti, la legge Alfano sia stata definita incostituzionale perché viola l' articolo 3 della Costituzione italiana secondo il quale "tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge"», è un' opinione legittima quanto quella contraria, rientra nel fisiologico dibattito politico democratico, ma non fa, evidentemente, testo. Antonio Di Pietro, come laureato in legge, ex magistrato, parlamentare, tutto ciò lo dovrebbe sapere. Se con l' «appello alla comunità internazionale» egli mostra di ignorarlo, vuol dire non solo che non sa che cosa sia la democrazia liberale, non solo che non crede che l' Italia lo sia, ma che ha un' idea della democrazia alquanto inquietante. Qui, la situazione giudiziaria di Silvio Berlusconi non c' entra. Siamo di fronte a un parlamentare che delegittima - oltre che una maggioranza di governo liberamente eletta, la qual cosa rimane ancora nei limiti del confronto politico - anche il Parlamento, il presidente della Repubblica e dubita persino della legittimità della Corte costituzionale, che potrebbe nei prossimi mesi respingere, senza scandalo, il lodo Alfano. Uno spirito, quello di Di Pietro, autoritario che mal sopporta, oggi, di fare politica dentro il perimetro costituzionale, e che così facendo getta anche qualche ombra sul suo passato di magistrato. postellino@corriere.it
Ostellino Piero
Pagina 1 - 10 luglio 2009

E questo è il secondo:

L'ILLIBERALE VOCAZIONE A CHIEDERE LE DIMISSIONI
Demagogia nella posizione di Di Pietro contro i giudici costituzionali

Alcuni lettori mi accusano di essere «berlusconiano» perché ho criticato la richiesta di Antonio Di Pietro, cui si è accodato il Partito democratico, di dimissioni del giudice della Corte costituzionale che ha invitato a cena Silvio Berlusconi e di quello che vi ha partecipato. Non sono berlusconiano, ma non me la prendo per l' accusa (soprattutto) perché non penso che «berlusconiano» sia una brutta parola, o che chi lo è sia un cretino o un mascalzone, così come non lo sia chi appartiene a altro schieramento. Troppi si credono democratici solo per aver messo metaforicamente una appartenenza «progressista» sulla camicia nera che continuano, di fatto, a portare sotto. «I quindici giudici della Corte costituzionale sono nominati per un terzo dal presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrativa» (articolo 135 della Costituzione italiana). Che piaccia o no - «è la democrazia, bellezza» - hanno un orientamento che riflette non solo quello di chi li ha nominati, ma anche, come ogni uomo, dello schieramento politico, o dell' indirizzo culturale, cui sono vicini. Come votino lo si sa, a prescindere dalle cene. Non mi pare neppure scandaloso che le opposizioni facciano il loro mestiere, fingendo una difesa della separazione dei poteri cui non credono; ma per indurre i due a astenersi sul Lodo Alfano e far prevalere chi lo vuole dichiarare anti-costituzionale: «è la politica, bellezza». Scandaloso, se mai, è che nessuna forza politica - neppure quella che si dice liberale - abbia mai proposto sia resa pubblica la dissenting opinion dei giudici che non si identificano in una sentenza approvata a maggioranza; che la nostra Corte costituzionale continui a funzionare come il Politburo sovietico, sulla base del principio leninista del «centralismo democratico» che demonizza le minoranze. Se proprio la si volesse mettere giù dura, si potrebbe dire, allora, che la richiesta di dimissioni è un espediente demagogico dell' Italia dei valori e del Partito democratico a uso di chi porta il cervello all' ammasso di un certo moralismo d' accatto e poi mi scrive «indignato» perché io tale la trovo. Concludo, per dirla col filosofo, che essa non è un' imposizione «alla libertà di volere» dei due giudici (di partecipare alla votazione), ma alla loro «libertà di giudizio» (di votare come credono); che - almeno per quanto riguarda Antonio Di Pietro - rivela, sì, una vocazione illiberale, ma non di ieri, e sulla quale sarebbe, del resto, difficile nutrire dubbi.postellino@corriere.it
Ostellino Piero
Pagina 43 - 11 luglio 2009.