05 luglio 2009

Mandel’stam, la poesia vince i gulag.


"Avvenire" del 4 luglio, pubblica questa bella recensione di Bianca Garavelli al volume: "Ottanta poesie" di Osip Mandel’stam (a cura di Remo Faccani; Einaudi, 2009; pp. 278; € 15,50).
Entriamo in una vita e in un clima culturale con queste Ottanta poesie, in cui Remo Faccani interpreta in modo originale il percorso poetico del grande autore russo Osip Mandel’stam.
Anche le scelte, gli amori, le gravi difficoltà e le tragedie personali del poeta sono presentate con grande attenzione dal curatore, in quanto parte integrante di un tessuto artistico, i cui fili sono non sono solo gli importanti poeti da lui frequentati in Russia, tra cui Anna Achmatova, coi quali diede vita al movimento acmeista, ma anche l’intensa religiosità, che lo spinse a convertirsi al cristianesimo, l’amore per la pittrice Nadja Chazina, divenuta sua moglie, e la feroce persecuzione del regime staliniano, che infine lo uccise dopo una crudele prigionia.
Mandel’stam nacque nel 1891 da una famiglia ebraica, e non dimenticò mai questa provenienza anche se scelse il cristianesimo, intendendo sempre il proprio rapporto col mondo in senso profondamente religioso. Talento precoce, scriveva già poesie di maturità evidente prima di compiere diciotto anni, a metà strada fra un modo occidentale 'egocentrico' di fare poesia, con l’io poetico in primo piano, e uno 'orientale', in cui lo sguardo del poeta si annulla nel paesaggio, vivendolo semplicemente. Questa caratteristica diventa propria del Mandel’stam adulto: una tendenza a farsi lui stesso paesaggio, a riconoscere in sé gli aspetti sia di un elemento della natura, sia di una mente osservatrice che si impadronisce di ogni dettaglio, mossa da una febbrile consapevolezza. Che a volte rischiava di consumarlo: in una poesia del 1909 il poeta si definisce insieme «giardiniere e fiore», riconoscendosi la responsabilità di una cura del proprio corpo, dono magnifico e impegnativo, che può diventare un peso insostenibile. Anche eventi e città partecipano di questa metafora della fioritura, sono 'in fiore' come giardini pensili babilonesi in terra moscovita, fusione di Oriente e Occidente, di un’interpretazione sensuale e severa della vita umana.
La metafora è il centro generatore della sua poesia, e fino alla metà degli anni Venti la consapevolezza artistica del poeta raggiunge il culmine, mentre i contrasti con la società letteraria all’ombra del regime non sono ancora insanabili. In seguito, insieme col suo ruolo pubblico di intellettuale (nel ’32 si dimette dall’Unione degli scrittori), anche la sua voce poetica sembra spegnersi. Ma Faccani mette in luce un altro aspetto importante: nonostante l’arresto e la deportazione nel campo di Voronez fra il 1934 e il ’37, 'miracolosamente' la vena di Mandel’stam conosce una nuova grande stagione negli anni Trenta, fino al 1937, un anno prima della tragica morte. Potrebbe bastare questo verso, datato aprile 1935: «Benché morto e rimorto, debbo vivere». E ancora, nella primavera del 1937, tornano la nitidezza da haiku e il desiderio di annullarsi in una natura senza presenze umane: «Quanto vorrei, oh quanto / - non visto, non sentito - / volare dietro a un raggio / là dove non esisto». Proprio nel marzo del 1938 Mandel’stam fu arrestato per l’ultima volta e solo l’abilità e il coraggio della moglie Nadja permisero di salvare le sue poesie inedite. Morì il 27 dicembre di quell’anno, presso Vladivostok, in una baracca di un 'campo di transito' per prigionieri destinati alla Siberia. La notizia ufficiale della sua morte sarà data ai familiari un anno e mezzo dopo. Sarà ufficialmente 'riabilitato' nel 1987.

Nell'illustrazione: un vero reperto. Cliccando sull'immagine si può leggerlo ingrandito.