14 luglio 2009

Il tempo del denaro e la modernità secondo Charles Peguy.


Su "L'Occidentale", un ragionamento di Michela Nacci del 5 sc..

Perché può essere interessante oggi leggere Charles Péguy? Classificato nei manuali di storia del pensiero politico come nazionalista e reazionario, si considerava da parte sua socialista e cristiano. Come mettere d’accordo queste definizioni contraddittorie?

In effetti, Péguy incarna un eccezionale punto di osservazione su quella cultura che, fra Ottocento e Novecento, riflette sulla modernità chiedendosi che cosa sia esattamente. Una risposta che viene data dice: modernità è il tempo del denaro. Péguy la condivide, ma – come vedremo alla fine - in modo molto originale. Afferma: “E mai il denaro è stato, fino a questo punto, il solo padrone e il solo Dio. E mai il ricco è stato così al riparo dal povero e il povero così esposto al ricco.”

Tempo del denaro significa: tempo in cui la quantità, l’oggettività, la materia, il calcolo, l’economia, il peso dei bisogni, delle merci e dei prezzi, grava sugli esseri umani.
Tempo del denaro significa: tempo della grande industria, del lavoro meccanizzato, ripetitivo.
Tempo del denaro significa: tempo della massa, la massa creata dal lavoro, dalla città, dalla grande città, dalla scolarizzazione universale, dai giornali, dagli spettacoli che si dirigono a un pubblico indifferenziato, dalle merci in serie e tutte uguali fatte per un pubblico tutto uguale.
Tempo del denaro significa: tempo dell’uomo della folla di Edgar Allan Poe. E’ tempo di solitudine, di voyerismo, di doppio, di sosia, di fine dell’individualizzazione. Chi sono io? – ci si chiede. Chi sono gli altri? Quale è la differenza fra me e gli altri? Gli altri che mi sfiorano, che devono solo sfiorarmi, che devono rispettare la distanza, gli altri verso i quali sono curioso ma anche indifferente.
Tempo del denaro significa: tempo della solitudine, dell’isolamento, dell’abisso che si scava fra uomo e uomo.
Tempo del denaro significa: tempo dei politici di professione, di coloro che di mestiere lavorano nei partiti di massa che stanno nascendo proprio in quel momento. E’ il tempo dei politici e non dei mistici, come avrebbe detto Péguy. Il politico di professione lavora nella cosiddetta macchina di partito, e parla alla massa, alle masse.
Tempo del denaro significa: tempo del nervosismo, dell’eccitazione di tutti i sensi, della patologia mentale, della perdita del controllo, della perdita del contatto con il mondo, della perdita di sé. Il mondo si allontana da noi, e noi ci allontaniamo dal mondo. E ci allontaniamo da noi stessi. I mutamenti, le novità continue, le invenzioni che si susseguono, la novità come condizione normale del mondo, rendono incerto il nostro ambiente, precario, ci sottraggono la stabilità, la calma di cui abbiamo bisogno, creano la figura del nevrotico, dell’isterico (e più spesso dell’isterica), dell’alienato e dell’alienata, del degenerato.
Tempo del denaro significa: tempo dello scambio, dello scambio continuo, dello scambio accelerato, dello scambio di tutto con tutto, di tutti con tutti, del relativismo.
Tempo del denaro significa: tempo del capitalismo. Ma il capitalismo non è presente negli autori che riflettono sulla modernità. E’ presente il capitale, ma al modo pre-marxista di Proudhon. E’ presente il profitto, ma solo come guadagno iniquo, non dovuto. E’ presente il capitale necessario come credito, e il credito come denaro che indebitamente genera se stesso.
Tempo del denaro significa infatti anche tempo del credito, della speculazione, della Borsa.
Tempo del denaro significa tempo del commercio, del mercato, del mercanteggiare, del prestare a interesse, del far generare qualcosa che non può generare dal momento che è qualcosa di astratto, qualcosa che esiste solo della relazione e dello scambio, qualcosa che non ha un valore in sé ma che è solo universalmente fungibile.
Tempo del denaro significa tempo in cui è il denaro a generare valore, è il denaro (e non il lavoro) a generare denaro.
Tempo del denaro significa per qualcuno: tempo dell’ebreo. Mi ha molto colpita, rileggendolo, il modo in cui Otto Weininger in Sesso e carattere (1903) fa dell’ebreo l’esatto corrispondente del denaro: l’ebreo non ha nessuna specificità, nessun carattere particolare, è distaccato da tutto ciò con cui entra in contatto, ma al tempo stesso non esiste da solo. L’ebreo non conosce la solitudine, e allo stesso modo il denaro esiste solo nello scambio: è in quanto è sempre in contatto. L’ebreo è nomade, non riesce a radicarsi da nessuna parte: proprio come il denaro, che non è ancorato a niente, bene mobile per definizione. L’ebreo non ha forma – scrive Weininger -, non ha personalità: come il denaro, la cui essenza (se ne possiede una) è proprio quella di non essere niente, di non essere niente in sé, niente al di fuori della fungibilità universale, del metro indifferente per tutti gli scambi, del mezzo perché gli scambi possano universalmente aver luogo.
Tempo del denaro significa dunque un’analisi del capitalismo, dell’industrialismo dispiegato, della società di massa, della politica come professione, della politica di massa, svolta senza gli strumenti forniti da un altro analista di quella realtà: Marx. Si tratta di una riflessione che viene eseguita senza l’analisi marxiana della produzione di beni, della circolazione di beni, degli scambi, della creazione del valore e del plusvalore, quell’analisi che attinge all’economia politica gli strumenti che la rendono “scientifica” (come Marx ed Engels affermano) rispetto a posizioni “utopistiche”.

E’ di quegli anni, e precisamente del 1903, Filosofia del denaro di Georg Simmel: un testo che vuole restare al di qua e al di là dell’economia politica, che non contiene nemmeno un rigo di economia politica. Eppure, parla del denaro, dello scambio, del valore, dell’utilità, della scarsità, dei beni, delle merci, del mercato: temi classici dell’economia politica. Simmel, invece, scrive una filosofia del denaro. Questo rifiuto accomuna l’opera di Simmel a quella di Péguy: Péguy non vuole avere niente a che fare con l’economia politica, né con l’economia, e neppure con la politica dei politici.
Eppure l’interpretazione, il disegno - si direbbe con termine forse più appropriato - che Simmel offre in Filosofia del denaro e altrove (ma in quest’opera in modo grandioso) della vita nervosa, smarrita, perduta, della metropoli nell’epoca dell’accelerazione, della tecnica, delle merci tutte uguali, è qualcosa che ci parla da vicino, è un’immagine del tempo del denaro che resta, che dice qualcosa di essenziale su quel tempo.

Eppure, l’invettiva di Péguy contro il denaro ci restituisce del tempo del denaro un’immagine vera e palpabile, un’immagine non banale, non lineare, non schiacciata sull’antimodernismo reazionario con cui spesso è stata identificata. In entrambi i casi, si ha l’impressione che questo accada non nonostante il fatto che gli autori ignorino deliberatamente l’economia politica, le discipline che studiano scientificamente il denaro, la politica, ma grazie a questa volontaria ignoranza. Per Péguy non si tratta solo del fatto che le discipline scientifiche che prendono in esame il denaro lo porterebbero ad avere una conoscenza del funzionamento di quegli oggetti dall’interno, e che tale conoscenza non gli interessa: crede che il significato del denaro si possa comprendere solo dal di fuori e perfino contro l’economia e le discipline scientifiche, crede che il significato della politica si possa cogliere solo dal di fuori e contro la politica dei politici. Péguy è più vicino a Simmel che non a Marx e ai marxisti: e lo è esattamente per la sua concezione del denaro come cifra, come rappresentazione sensibile, semplice, unitaria, della modernità. Péguy, per parte sua, è vicino a un socialismo certamente non marxista, non collettivista, più sindacalista che politico, più antiborghese che anticapitalista, in consonanza piuttosto con la democrazia industriale evocata da Proudhon e con un cristianesimo degli esclusi.

Abbiamo detto che il socialismo di Péguy è antiborghese. Tempo del denaro, infatti, significa anche tempo della borghesia, dello spirito borghese, della borghesia come mentalità, al modo in cui in quegli stessi anni Léon Bloy la ritrae in forma crudele ed efficace nell’Esegesi dei luoghi comuni. La borghesia alla quale si fa riferimento è la borghesia stigmatizzata da Georges Sorel come quella che ha inglobato ormai completamente gli operai nella sua ideologia del progresso, del miglioramento graduale, della pace, della non-violenza, della conservazione. E’ Il borghese di Werner Sombart che ha creato il capitalismo: il borghese che è ebreo, che fa generare il denaro dal denaro, che trasforma tutto ciò che tocca in oro.

Non è davvero un caso che avvenga proprio nel “Cercle Proudhon” il contatto fra Péguy e Sorel, fra Péguy e Charles Maurras, fra Péguy e Georges Valois. Né è un caso che l’incontro avvenga sotto il segno di una critica non-scientifica al capitalismo, al tempo del denaro. Péguy è con questi autori, ma è anche contro di loro. Per lui non esiste l’ebreo, il tipo dell’ebreo, come accade invece per Edouard Drumont, per Weininger, per gli antisemiti: per Péguy esistono i differenti ebrei, diversi fra loro, gli ebrei ricchi e gli ebrei poveri, ed è solo con i poveri che egli si ritrova. Gli ebrei ricchi sono quelli integrati nel potere, i borghesi. Per Péguy non si deve tornare indietro, alla vecchia Francia, al Medioevo, al cattolicesimo medievale, come invece afferma esplicitamente Bloy, anche se – come lui – vede la bruttezza del tempo del denaro e sente tutto il richiamo di quel mondo passato. Per Péguy è necessario pensare al futuro, ai propri figli: bisogna essere nel tempo del denaro ma senza essere sciupati dal denaro. Bisogna che il popolo non si imborghesisca – come per Sorel, come per Bloy -, ma, a differenza che per loro, è necessario essere nel mondo dei borghesi.

Per Péguy, così come per il Drumont de La France juive (1886), il tempo presente è triste, spento, tetro, interessato, livoroso, povero nell’abbondanza: è il tempo della nevrosi, nevrosi che l’ebreo ha trasmesso alla modernità - afferma Drumont (ma non afferma Péguy). Per Péguy non esiste il capitale, ma il denaro, come per tutti gli altri autori ricordati. Su questo punto si ritrova con loro, da Simmel a Weininger. Per Péguy non esistono gli operai, ma i poveri: e su questo punto si ritrova con Bloy. Per Péguy non esistono i socialisti in generale, ma i socialisti francesi, i socialisti tedeschi, e via via gli altri, nazione per nazione. Per Péguy non esiste la borghesia come classe, ma come condizione dello spirito: e su questo punto si ritrova con Sorel, con Bloy, con Weininger, con Sombart.

Per Péguy la modernità è il denaro: oggettivo e spersonalizzante, esclusivamente relazione, potente e debole, tutto e niente allo stesso tempo, staccato dal lavoro, separato dalla terra, divenuto inquieto e agitato, sradicato. Sradicato come l’ebreo – osserverà qualcuno, ma non Péguy. Il denaro domina ogni altra cosa, e così ingabbia l’uomo moderno, come scriverà Max Weber, in una gabbia d’acciaio. E’ la parte più bassa degli interessi e degli appetiti quella soddisfatta nell’epoca moderna. Per Péguy il lavoro, l’economia, nell’epoca moderna, nell’epoca della borghesia e della politica, diventa volgare materialismo, dominio del basso sull’alto, predominio del momento economico dell’esistenza.
Tutto questo forma una tradizione, uno stile di pensiero, molto consistente, influente, importante e duraturo, che attraversa il Novecento e con il quale ancora avviene di confrontarsi. Non riesco a leggere in altro modo, ad esempio, le riflessioni degli antiutilitaristi alla Alain Caillé che contrappongono il dono allo scambio, oppure la lettura che Zygmunt Bauman offre della nostra modernità estrema o postmodernità.

Ma Péguy, proprio come Simmel, non rifiuta o accetta in modo lineare la modernità, anche se la sua definizione della modernità è quanto di più duro si possa scrivere contro di essa. Péguy non liquida la modernità, il tempo della scienza, del progresso, della borghesia, del denaro, della accelerazione, del calcolo, della quantità: ne vede tutti i profondi limiti, ma ne indica anche al tempo stesso la necessità, la funzione, la ragion d’essere. Questo mi pare detto meglio che altrove nelle pagine finali de L’argent. Suite (1913): dapprima, non si capisce in modo quanto ironico e quanto serio, Péguy afferma che la nostra epoca non è epoca di nani, non è da meno delle altre, per poi scrivere: “E’ vero che dall’inizio del mondo, il mondo moderno è il più contrario che esista, alle regole della Salvezza. Ma per una di quelle meravigliose compensazioni che stupiscono solo i devoti, nello stesso momento in cui il mondo moderno si formava come il sistema più contrario che si potesse dare alle regole della salvezza, le forme medesime del mondo moderno – intendo dire le sue forme fisiologiche e, per così dire, il suo stampo – diventavano la regola stessa della salvezza. Vengono richieste delle discipline: eccone una. Mai un mondo era insorto, fino a questo punto, contro le regole volontarie della salvezza. E mai un mondo era stato così strettamente posto nei limiti di queste stesse regole involontarie. Tutto quello che si era dovuto inventare in altri tempi, oggi ci è dato come la forma stessa in cui siamo costretti a muoverci.”

Qui stanno, mi pare, la grandezza non minimizzabile di Péguy e la sua originalità, la sua idea secondo la quale gli eroi, i santi, i poveri, mostrano la miseria del mondo moderno ma al tempo stesso devono stare nel mondo moderno per poter essere eroi, santi, poveri.